PREFAZIONE
Mai avrei immaginato di trovarmi (apparentemente) a imitare quel
vecchio rudere liberal-libertino di Berlusconi nell’esercizio della stroncatura
e del motivato insulto verso gli articoli dell’Espresso. Questa volta però, a
conferma che il peggior lascito di Berlusconi è l’antiberlusconismo (capitò
così, come ebbe a notare il comunista Bordiga, anche per il fascismo, il cui
principale danno che ancora riesce a recare all’Italia dopo settant’anni è la
retorica antifascista usata quasi sempre a sproposito e sempre a danno di
chiunque esca dal coro “democratico”), mi ci trovo tirato per i capelli come
Fra’ Cristoforo quando, ancora non frate, si dovette scontrare a duello con
quel nobile prepotente, fanfarone e mentitore. Care giornaliste, stavolta avete
passato il limite del sopportabile nel vostro accusare di maschilismo chiunque
non accetti le grandi menzogne ideologiche e le piccole menzogne quotidiane del
femminismo. Avete imparato questo schema ai tempi del Berlusca e delle feste di
Arcore e pretendete di continuare ad usarlo contro chi inizia a vedere come
l’estremismo egalitario del politically correct sia in contrasto non solo
contro ogni etica, ogni logica, ogni diritto ed ogni ragione, ma pure con la
semplice realtà constatabile nella vita di ognuno di noi (persino dei comuni
cybernauti):
“Invito a consultare in prima persona il
commentario dell'articolo citato e poi rileggere questo.
Le femministe non tollerano dai maski
discorsi apodittici su cosa sarebbero le donne e su cosa dovrebbero essere, e
pur facendolo di continuo a parti invertite, un tempo dicevano chiaro che
l'utero rendeva superiori, e tutto tornava. Dopo la 2°ondata, arrivarono a
negare la differenza sessuale dopo averla elevata a metro dell'Universo. Ma
dato che senza porre alcuna specificità(superiorità) femminile è difficile fare
le femministe, arrivate a dire di tutto e il suo contrario, tengono però ferma
una sola linea guida: il maskio è l'origine di ogni male.
Il senso comune attuale vede come
negativa una certa cosa? La tal cosa viene
dal patriarcato.
Non accetti la nostra opinione? Abbiamo
"punto sul vivo" eh?
Una miniera,per chi voglia corredare di
esempi un manuale di fallacie.”
***
INTRODUZIONE
Nell’Arte di avere ragione, Schopenhauer fa notare come uno dei più
bassi trucchi per controbattere un’opinione avversa senza doverla nemmeno
valutare nel merito consista nel portarla all’esagerazione mostrandone gli
assurdi. Qualunque principio infatti, anche il più giusto, produce distorsioni
se spinto all’eccesso. Anche senza pensare che redattori e giornaliste
dell’Espresso siano in grado di capire Schopenhauer, rileviamo come abbiano
ricorso a tali infimi trucchi per non dover controbattere con argomenti alle
motivate critiche piovute dopo il loro recente articolo/video/servizio misandrico.
E’ bastato loro pubblicare, fra le migliaia di risposte pervenute, le
quattro o cinque inevitabilmente cretine (o, comunque, esagerate ed esagitate)
per credere di aver replicato a tutti i presunti “maschilisti” mostrando la
pretesa “verità” dei loro articoli. Purtroppo, non hanno tenuto conto che, con
internet, oggi si possono facilmente smascherare certe fake news da parte del
sistema dominante che un tempo sarebbero rimaste “verità ufficiali”.
Frequentando altri forum infatti, si può rilevare come, fra le varie repliche
inviate al giornalaccio, ve ne fossero di ben più strutturate, argomentate,
moderate e condivisibili di quelle “becere e maschiliste” mostrate. E questo al
netto del fatto che, dopo una ormai pluridecennale (era già in atto quando lo
scrivente frequentava le scuole medie con annesse professoresse
comuniste-femministe) campagna mediatica e culturale antimaschile volta a
presentare l’uomo come fonte di ogni male, colpevole di ogni delitto,
responsabile di ogni oppressione storica ab origine se non ab aeterno, di cui
la Boldrini e l’Espresso sono solo i due ultimi e più insopportabili esponenti,
sia comprensibile (se non giustificabile) anche uno sfogo apparentemente becero
e gratuito se preso fuori contesto. Ciò è tanto più vero se si considera come
parallelamente, nella realtà, molte donne continuino a sfruttare gli antichi
privilegi assieme ai moderni diritti, pretendano quote di potere nel “mondo
come rappresentazione” (politica, educazione, economia, società) ma non cedano
nulla del loro potere naturale nel “mondo come volontà” (corteggiamento,
seduzione, possibilità di scelta e potere contrattuale nei rapporti
erotico-sentimentali), utilizzino le leggi femministe sul divorzio per vendette
arbitrarie o semplici modi di spennamento altrui, si sentano in diritto di
permettersi di tutto davanti all’uomo senza dover temere nulla (giacchè chi
reagisse sarebbe bollato come anti-cavalleresco e socialmente allontanato per
non dire arrestato) alla pari delle scimmie sacre del templio di Benhares cui
già Schopenhauer paragonava con buone argomentazioni certe occidentali.
I più formali hanno subito obiettato che lamentarsi di maschilismo
quando la terza carica dello stato si lascia andare ad affermazioni sulla
presunta “superiorità femminile” basate puramente sulla trita e ritrita
mitologia matriarcale è fuori luogo. Quelli ancora più attenti al politically
correct hanno rilevato come tale atteggiamento configuri (contro il maschile)
quella stessa ipotesi di sessismo che da molte parti si vorrebbe rendere reato
(se espressa contro il femminile).
I più attenti alla sostanza hanno tentato di farvi capire come
affermare qualcosa di chiaramente ideologico contro una parte della popolazione
rientri fra le prerogative dello stato totalitario prima ancora che etico e
voler ridurre al silenzio le obiezioni screditando moralmente chi sostiene un
pensiero avverso (“beceri e maschilisti”) sia un degno corollario da propaganda
di bassa lega:
“La cosa curiosa è che vittimizzarsi
"in quanto donna" per la condizione di donne con le quali si ha in
comune poco o nulla oltre ai genitali, accusando in blocco ogni maschio del
pianeta vivente o già polvere, per ciò che si interpreta a priori come frutto
di oppressione patriarcale, è l'ordinaria prassi femminista.
Però rifilare una risposta come la sua
alla prima docente/giornalista/ intellettuale etc benestante che scriva
l'ennesimo articolo fempiagnone sulla precarietà economica delle donne, come se gli uomini avessero tutti
il posto fisso e come se uomo avesse le stesse possibilità di una donna di
farsi mantenere senza stigma sociale ...
beh sarebbe sessismo, misoginia, maschilismo arrogante, etc.”
Un loico del calibro di quel famoso diavolo dell’inferno dantesco che
strappa il defunto all’angelo con un sillogismo, dovrebbe aver fatto notare
come l’accusa di “oggettificare” la donna rivolta contro il desiderio maschile
per la bellezza corporale (nonché spesso anche per l’illusione sentimentale)
poggi su un semplice malinteso linguistico. Per costruire una frase descrivente
un’azione (ovvero qualcosa di aderente alla realtà effettuale e non alle
fumisterie femministe figlie delle scoregge intellettualizzate hegeliane) è
infatti necessario, oltre al soggetto, il complemento oggetto. Esso può essere
sia una cosa sia una persona, senza che in quest’ultimo caso sia implicata una
sua riduzione ad oggetto in senso morale (o moralista). Se il romanzo della
vita va avanti, la stessa persona oggetto di azione in una frase può benissimo
essere soggetto nella frase successiva. Se uomini e donne non fossero
alternativamente soggetti e oggetti l’uno dell’altro, non potrebbero mai agire
e la loro non sarebbe una vita ma una pura riflessione letteraria. Nel caso
dell’amore sessuale, poi, l’alternanza è anzi una contemporaneità: la donna è
oggetto del desiderio di natura dell’uomo (al suo primo apparire, con la
rapidità del fulmine e l’intensità del tuono, come l’irrompere di una cascata)
così come quest’ultimo, ahilui, è oggetto della selezione naturale operata dal
genere femminile (il quale ha il privilegio di scegliere da una sorta di
piedistallo – che con l’età degenera in cattedra - senza il dovere di muoversi
per primo, rischiare, competere come invece volente o nolente deve fare la
controparte). Perché essere oggetto della prima azione dovrebbe essere
offensivo ed esserlo nella seconda azione dovrebbe invece considerarsi normale
ed accettabile? Entrambe le azioni sono naturali e, fra le due, è la seconda
quella che rischia di ferire la psiche di animali senzienti (come ben sa chiunque
abbia l’ingrato compito di farsi avanti alla cieca fra mille pretendenti, senza
poter porre innanzi nulla di immediatamente visibile, intersoggettivamente
valido e probabilmente apprezzato con cui bilanciare la bellezza che invece
fiorisce nella controparte, con il conseguente rischio di venire trattato con
malcelata sufficienza, aperto disprezzo o addirittura sadica stronzaggine
dell’illudere per ferire, irridere e umiliare).
La prima azione dà potere contrattuale all’oggetto ed è tanto lontana
dall’essere disdicevole che la gran parte delle donne fa follie pur di apparire
bella. Anzi, in generale l’oggetto di disio è di per sé su un piano superiore
al soggetto disiante (che deve infatti elevarsi e faticare per raggiungerlo
come un cavaliere alla ricerca del Graal – non è un caso se le storie medievali
alla base della sopravvalutazione estetico-filosofia delle figura femminile in
Occidente, di cui tutto l’Oriente ride come ne avrebbero riso i Greci, hanno
questo schema). Lamentarsi dunque della donna-oggetto è del pari un lamentarsi
di un privilegio da parte delle giovani, un invidiare qualcosa di perduto da
parte delle attempate e una pretesa irrealistica da parte di tutte: vogliono
forse impedire all’uomo di compiere qualunque azione? Renderlo cioè impotente
sotto ogni punto di vista sessuale e sociale? E in tal caso chi rimarrebbe loro
da selezionare? Anche loro cesserebbero di essere soggetti in quell’ambito.
Qualcuno ha argomentato semplicemente che non tutti picchiano le donne,
anzi, la frase “sii uomo” significa per i ragazzi l’insegnamento a non toccarle
neanche con un fiore (cosa su cui personalmente non sarei concorde se si
permette contemporaneamente al presunto fiore di bastonarci molte volte e in
diversi modi). Ciò dovrebbe bastare a smentire che la violenza sarebbe
connaturata all’educazione maschile tradizionale.
Qualcuno più ardito ha fatto notare come la pretesa emergenza
“feminicidio” sia una montatura, nel senso che non solo i casi sono in calo, ma
sono comunque, e da sempre, di molto inferiori a quelli in cui la vittima di un
omicidio è un uomo, un uomo muore sul lavoro, un marito ha la vita moralmente e
materialmente distrutta da una ex che usa l’applicazione a senso unico delle
leggi femministe su aborto, divorzio e violenza sessuale. Da ciò si dovrebbe
dedurre che sono gli uomini a vivere un maggiore disagio sociale, tanto da
dover ricorrere al crimine (o rimanerne vittime) è ancora quello maschile il
sesso considerato “sacrificabile” per utilità sociale, che il femminismo
(almeno quello attuale mainstream) tutto è tranne che un movimento per
l’uguaglianza e la felicità di uomini e donne.
Quelli davvero coraggiosi possono aver fatto notare che fra gli uomini
contati come carnefici perché hanno ucciso la ex vi sono sia quelli che, quasi
contestualmente, hanno tolto la vita pure a loro stessi, sia quelli la cui vita
è stata già da prima (per opera di colei che voi vedete solo come vittima)
distrutta economicamente, psicologicamente e socialmente, oppure ridotta a
quella di un esule ottocentesco privato di famiglia, casa roba.
Nel primo caso si può solo ravvisare la coerenza disperata di un uomo
che quando chiamava la propria amata “vita de la mia vita” non stava semplicemente
recitando un celebre verso di Torquato Tasso, ma soltanto anticipando la verità
di un amore che non può vivere senza il proprio oggetto. Nel secondo caso si
dovrebbe capire come il continuo aizzare leggi e giudici contro gli uomini
possa portare solo ad altre ingiustizie e ad altre follie.
Solo la Boldrini può pensare che un amore così forte sia figlio del
considerare la “donna un oggetto”. Per un oggetto non solo non si uccide, ma
non ci si dispera nemmeno. Amore, odio e disperazione nascono dal desiderio e
dalla perdita di qualcosa o di qualcuno cui, semmai, si attribuisce troppo
valore (addirittura più valore della propria vita nel caso dei suicidi). Il
fatto che il numero dei maschi sia superiore sia fra i suicidi sia fra i
cantori del sesso opposto dovrebbe far capire la verità della massima
nietzscheana secondo la quale “le donne sembrano sentimentali, gli uomini
invece lo sono”. Il fatto che, per tornaconto personale o ideologico di genere,
si trascurino i suicidi d’amore maschili e si dica che gli uomini non sanno
amare di fronte a uomini che commettono sì uxoricidio, ma per follia amorosa
per una donna (non voglio indagare se indotta o meno dalla stessa), reclamando
al contempo pene ancora più severe (addirittura “preventive) per chi “sbaglia”
nel corteggiamento o nell’innamoramento (quando già infinita è la pena dello
strazio dell’anima per l’irraggiungibilità dell’amata, che talvolta, magari, si
diverte pure a stronzeggiare e a irridere), dimostra anche l’assoluta verità
del suo compendio “gli uomini sembrano crudeli, le donne invece lo sono”.
***
CAPITOLO I.
(SUL FALSO MITO DELLA “VIOLENZA MASCHILE”)
Dovrebbero vergognarsi le femministe che sul vostro blog hanno
dimostrato di considerare chi, per capriccio, vendetta o interesse, distrugge
una vita vilmente con i meccanismi giudiziari e socioecomonici concessi in
occidente alle donne, “moralmente superiore” all’uomo che, per reazione o per
semplice disperazione, agisce in prima persona, sapendo di affrontare la galera
o la morte, ed usa le uniche armi che gli rimangono (la violenza disperata).
I più diretti, poi, vi hanno certamente spiegato che il termine
“violenza maschile” è menzogna perché, se siamo tutti d’accordo nel condannare
moralmente la sopraffazione arbitraria, solo chi sta dalla parte del sesso
dotato, in ipercompensazione delle minore forza fisica, di ben più variegate e
penetranti possibilità (ho detto possibilità, non abitudine, quindi questa non
è un’accusa misogina ma una constatazione oggettiva) di prevaricare il prossimo
tramite le sue debolezze erotico-sentimentali, la parole obliqua, il
vittimismo, la perfidia, la tirannia coi sensi di colpa, nonché il pronto aiuto
altrui, può ritenere l’impiego, in qualsivoglia conflitto fra due individui, di
un chiaro e aperto atteggiamento di ostilità meno “degno” rispetto ai mezzi
sopra citati.
La dimostrazione che le donne non siano meno “cattive” solo perché in
genere usano altri mezzi di sopraffazione e che la stessa violenza fisica non è
loro aliena è data da una statistica che non viene mai citata: la violenza sui
minori da parte di chi dovrebbe tener loro compagnia e coccolarli. Diverse società
di baby-sitting, infatti, consigliano da tempo di preferire i ragazzi alle
ragazze in quanto meno inclini a percuotere i pargoli. Se davvero la violenza
fosse maschile, non sarebbe credibile che appena la disparità di forze fisiche
volge a favore delle donne, queste diventino ancora più violente degli uomini.
D’altronde, è noto agli etologi che sono proprio gli animali più
“armati” a risultare più “corretti” nell’uso della violenza (un lupo, a
differenza di un topo, non finirebbe mai un proprio simile che si arrenda) e
siano, in ogni specie, gli individui più “deboli” a ricorrere alla scorrettezza
e al combattimento distruttivo (non potendo competere in quello leale e
rituale). In genera la natura dota chi è più forte anche di più capacità di
controllare e ritualizzare la forza (i cervi, pur potendo sferrare calci
pericolosissimi, lottano solo con le tanto decorative ma assai meno letali
corna). Ricorda qualcosa anche fra noi umani?
Chi avesse studiato l’etologia, la quale è una scienza, al contrario
degli sproloqui sociologici, psicanalitici e intellettualistici di chi tutto
attribuisce ai “rapporti di produzione” e “all’oppressione dell’uomo sull’uomo”
o “dell’uomo sulla donna”, potrebbe anche rispondere che l’aggressività non è
un “male” (tantomeno un male specificatamente maschile), ma semplicemente uno
dei quattro fondamentali impulsi di ogni essere vivente (assieme all’istinto
sessuale, a quello di fuga, ed alla fame). Tutte le specie e tutti gli
individui proteggono se stessi e il gruppo, emergono nei conflitti insiti alla
vita, conquistano, competono, sono curiosi, scoprono, esplorano, si
organizzano, insomma, sono viventi, proprio in quanto anche aggressivi.
Se è vero che l’impulso aggressivo può portare a rischi autodistruttivi
(come nel caso dei topi che se troppo vicini possono sbranarsi fra loro), è
anche vero che, qualora ritualizzato, può risolvere molti conflitti sociali (si
pensi al rito del corteggiamento fra cervi, dove il combattimento a regole che
escludono la “slealtà” ed obbligano il soccombente ad accettare la sconfitta) e
addirittura porsi alla base di sentimenti di amicizia (probabilmente nati dalla
necessità di allearsi di due ex nemici contro uno nuovo). Nelle società umane è
facilmente dimostrabile il legame fra l’impulso aggressivo e le attività di
valore comunitario e anagogico (dalla scoperta “scientifica” all’ordinamento
sociale secondo l’etica guerriera dell’antichità classica, passando per lo
sport e l’amore per l’esplorazione e il nuovo).
Vedere l’aggressività come qualcosa di solo maschile e di solo negativo
sta portando alla distruzione di intere generazioni (oltre che dell’intera
società occidentale). I popoli europei si sentono in colpa per aver avuto per
millenni il primato storico sugli altri (non certo meno “cattivi”, semplicemente
con meno armi da opporre), con il risultato che oggi hanno persino paura a
seguire i propri interessi anziché quelli di una presunta umanità universale
(dietro cui si cela la tirannia dell’universale finanza senza patria e a favore
della quale, dopo il non chiaro defenestramento dell’ultimo papa Benedetto XVI,
parla da San Pietro, fraintendendo il Cattolicesimo e buttando a mare secoli e
secoli di dottrina dai padri della Chiesa a San Tommaso d’Aquino, un gesuita).
I bambini a scuola vengono costretti dalle maestre e dalle professoresse a
rifuggire dalla “competizione”, con il risultato che lo studio (senza il
necessario stimolo competitivo-aggressivo) diventa per essi una noia mortale.
Se è vero che alle ragazze è stato permesso di volgere la propria aggressività
in alcuni particolari aspetti sociali (come l’abbigliamento e, direi io, la
stronzaggine), va rilevato che, se si tolgono lo studio e lo sport, ai ragazzi
non rimangono tante vie per dare sfogo ad un impulso naturale altrimenti a
rischio di ripiegarsi su di sé in atti distruttivi ed autodistruttivi. Sarebbe
questa la chiave interpretativa per spiegare la difficoltà dei giovani maschi a
scuola, piuttosto che le menate femministe sul maschile da rieducare e sul
patriarcato da sradicare. Di contro, il femminismo non fa altro che
rappresentare gli uomini come inutili e dannosi e sognare di mondi senza di
essi, cosicchè un giovane sottoposto a questi messaggi neanche tanto
subliminali (basta che accenda la tv, veda un spot o legga certi libri di
testo) è facilmente preda di comportamenti antisociali, non vedendo in questa
società (dai valori così ostentatamente “pseudopacifistico-femminili”) né il
modo in cui volgere verso l’alto i propri impulsi in qualcosa di valore
comunitario, né quello di riconoscersi e sentirsi apprezzato.
Io farei anche notare che il presunto “amore universale”
pretestuosamente associato alle donne è quanto di più anti-vitale vi sia al
mondo, non solo nel noto senso extra-morale in cui lo intenderebbe l’autore
dell’Anticristo, ma anche più specificatamente nel senso che la vita diviene
per un uomo invivibile. Anche al di là di ogni considerazione anagogica sulla
necessità del conflitto come “padre di tutte le cose” (Eraclito docet), e di
un’aristocrazia “olimpica” in grado di far compiere alla vita un “salto di
livello qualitativo” (come fu indubbiamente l’edificio della civiltà ellenica),
di giustificare in senso superiore l’esistenza
(come appunto gli eroi di Omero),
su cui ogni uomo ancora libero di pensare al di là dei dogmi egalitari
cristiani, socialisti e progressisti potrà fare le proprie considerazioni, la
vita è minacciata eudemonicamente dai principi “boldriniani” dell’accoglienza e
del femmineo “amore”. Si tratta di un falso amore (finta agapè) che, proprio in
quanto falso già nell’istinto (bisognerebbe “non aver paura dell’altro”,
resistere “alla tentazione dell’egoismo”, ovvero dell’istinto più vero e sano
contro cui nessuno è mai riuscito a produrre argomenti seri, dato che già
nell’antichità dovettero inventarsi Altri Mondi e punizioni infernali) preclude
il vero amore (vero eros, nascente dal desiderio di piacere e di perpetuazione
“in” questo mondo). E’ interesse infatti delle sole donne avere una società in
cui tutti gli uomini possano entrare e in cui nessuno abbia ragionevole
speranza di essere accettato da una donna se non dopo lungo, periglioso,
costoso (in ogni senso materiale e morale) ed estenuante corteggiamento seguito
da arbitraria, imprevedibile, insindacabile, spietatissima selezione.
Sarebbe invece interesse degli uomini avere una società nella quale (come
nella antiche caste guerriere e aristocratiche) pochi e selezionati uomini entrino
a far parte (dopo una prova basata sul merito, sul coraggio, sul valore,
sull’abilità) e, almeno ai livelli superiori, quasi tutti fra essi abbiano
ragionevole probabilità di apparire interessanti agli occhi delle più belle
fanciulle proprio perché parte di un’elite (elemento parificante
all’appartenenza della controparte all’insieme desideratissimo delle giovani e
belle – anche quando manca la bellezza subentra l’illusione del disio a
privilegiare la femmina in tali situazioni ed a rendere necessaria una
compensazione).
Forse nessuno ha detto questo nel timore di apparire troppo cinico ma
io, sperimentato il cinismo della femmina italica, ho molti meno scrupoli nel
prendere le contromisure anche da un punto di vista intellettuale e politico.
***
CAPITOLO II.
(SULL’ALTRETTANTO FALSO MITO DELLA “BONTA’
FEMMINILE”)
Il fatto che la donna non sia affatto portata per natura alla
mediazione ed alla conciliazione, bensì al litigo, alla tirannia e al trarre le
estreme conseguenze dai propri privilegi è data dal suo ordinario comportamento
laddove gode di privilegio per natura e ordine sociale: il CORTEGGIAMENTO
Basti pensare a come sfruttano il nostro desiderio di natura per farci
recitare da giullare o da seduttore, a seconda che vogliano divertirsi o che
bramino compiacere la propria vanagloria, o, come avviene spesso con quelle che
si ritengono dame corteggiate, per spingerci a far da "cavalier
servente" disposto a priori ad affrontare rischi e sacrifici degni, come
diceva Ovidio nell'ars amandi, delle campagne militari, a sopportare, insomma,
rinunce e privazioni, per non ricevere in cambio nulla se non la sola speranza.
Le giovin ragazze fanno ivi sovente un uso della propria avvenenza (o,
a volte, dell'illusione del desiderio che fa vedere e bramare all'uomo la
bellezza anche dove essa non v'è) ancora più malvagio e tirannico di quanto la
già di per sé malvagia maggioranza dei maschi (almeno i cinque sesti del
genere) non faccia della propria forza fisica e prepotenza (verso il restante
sesto che detiene il senno e studia ed è deriso).
Perchè dovrebbero comportarsi diversamente una volta giunte nel mondo
del lavoro, se gli uomini, mossi dalla stupidità politicamente corretta e dalla
demagogia femminista, anzichè limitarle con un sistema di balance of power,
concedono loro (come in questo caso) addirittura un potere in più?
Del resto basta guardare alle società matriarcali già presenti in
natura, dalle api agli elefanti, per rendersi conto di quanto infinitamente
infelice sia in esse la vita del maschio. Il grado di coscienza proprio
dell'essere umano la renderebbe poi intollerabile. Erra chi pensa la femmina
della specie umana essere men crudele o addirittura (fatto impossibile in
natura) più comprensive ed inclini al compromesso o alla pietà.
Tutta questa vicenda e le stesse risposte delle donne (tranne qualche
eccezione) mi dimostrano ancora una volta quanto ho sempre pensato, per conoscenza
degli Antichi e per esperienza del comportamento malvagio e tirannico tenuto
sovente dalle femmine laddove (come in quella sottospecie di stato di natura
costituita dall'età scolare) la loro preminenza diciamo erotico-sentimentale
non può essere compensata dal maschio in altre sfere con la fama, col
prestigio, col denaro, col potere, con la cultura, e con tutto quanto ogni uomo
savio si sforza di ottenere al massimo grado per essere ammirato e disiato allo
stesso modo in cui la donna lo è per le grazie corporali.
La società cosiddetta "maschilista" (ma non tale nei fatti) è
stata ed è dunque necessaria, non già per opprimere (ché non è l'obiettivo dei
savi) bensì per limitare i loro soprusi e le loro angherie prepotenti
(storicamente è la reazione alla prepotenza del Matriarcato).
Non è vero, come sostengono le donne per giustificarsi, che la loro
cattiveria sia reazione al maschilismo, ma, al contrario, è il maschiismo
l'umana e pacata reazione (umana e soprattutto PACATA perché, come visto e dimostrato
dalla storia, le donne reagirebbero, e molto più veementi, assolutiste e
perfide, alla situazione inversa) alla tirannia che le donne in ogni modo e in
ogni tempo cercano di imporre.
Si può giocare all'infinito a ribaltare la causa con l'effetto ("é
nato prima l'uovo o la gallina"?), ma è d'uopo considerare quanto segue.
Non ha senso citare al forza fisica dell’uomo come causa prima fra gli umani.
Innanzitutto essa non decide sulla superiorità di un gruppo su un altro dai
tempi dell’Uomo di Neanderthal, che era più forte ma è stato eliminato. In
secondo luogo essa, pur cercando di essere una compensazione alla più profonda
e sottile perfidia naturale della donna, non è mai pari negli effetti. La forza
fisica da sola non pareggia la perfidia. Quindi non è vero che le donne sono
perfide per difendersi dalla forza fisica, ma piuttosto che gli uomini hanno
costruito il maschilismo per pareggiare, non tanto con la forza fisica quanto
con la cultura e la società, la naturale perfidia femminile. Questo dimostra
che il potere naturale della donna, basato sulla sessualità, rispetto a quello
dell’uomo, che senza lo spirito potrebbe contare solo sulla forza fisica, è
superiore e non vi sarebbe bisogno per lei di “cattiveria” per difendersi.
L’uomo pareggia questo potere con l’organizzazione sociale, la cultura e lo
spirito, ossia la creazione di un superio che nasce dalle singole anime e da
esse si eleva ad un’oggettività superiore.
Essendo il potere delle donne fondato sulla natura e sugli istinti ad
essa correlati, ed essendo quello degli uomini invece fondato sull'arte (intesa
in senso lato come ciò che è opera delle mani dell'uomo) sulla parola, sulle
costruzioni culturali, sociali e poetiche si deve concludere essere il secondo
una limitazione del primo e non viceversa, giacché Costruzioni dell'intelletto
umano sono successive allo stato di natura (Il desiderio sessuale e il suo
sfruttamento a fini femminili sono preesistenti alla maggiore forza fisica del
maschio umano rispetto alla femmina, tanto che in natura vi sono molte specie
in cui è la femmina a divorare il maschio e mai viceversa). Inoltre il potere
conferito dal suscitare desiderio sessuale è superiore a quello dato dalla
forza fisica, poiché una volta che si ha il controllo della volontà che governa
quella forza essa non può nuocere. Ciò è dimostrato anche dal fatto che presso
gli umani le società matriarcali abbiano preceduto quelle patriarcali, ad onta
del fatto che l’uomo fosse già fisicamente più forte della donna e a scorno
delle tesi femministe su una perfidia suppositamente data dalla reazione alla
prepotenza fisica. Quindi risulta assolutamente errato introdurre la presunta
superiorità fisica del maschio per tentare di invertire l’ordine temporale di
questi fatti: la realtà è questa, il maschilismo è reazione pacata alla
prepotenza della femmina.
E dicendo “prepotenza” sono stato elegante. Dovevo dire “stronzaggine”.
Il "fare le stronze" (ormai divenuto costume nei luoghi di
divertimento come in quelli di lavoro, negli incontri brevi e occasionali per
via o in discoteca come in quelli più lunghi e sentimentali), ovvero trattare
con sufficienza o aperto disprezzo chiunque tenti un qualsiasi avvicinamento
erotico-sentimentale, mostrare pubblicamente, per capriccio, vanità , aumento
del proprio valore economico sentimentale o gratuito sfoggio di preminenza, le
proprie grazie solo per attirare, illudere e sollevare nel sogno chi poi si
vuole far cadere con il massimo del fragore, della sofferenza e del ridicolo,
diffondere disio agli astanti e attrarre a sè (o addirittura indurre ad arte a
farsi avanti e a tentare un approccio) sconosciuti che non si è interessate a
conoscere ma solo a ingannare, far sentire nullità e frustrare sessualmente,
dilettarsi a suscitare ad arte disio per compiacersi della sua negazione e di
come questa, resa massimamente beffarda, umiliante e dolorosa per il corpo e la
psiche da una raffinata, intenzionale e premeditata perfidia, possa far patire
le pene infernali della negazione a chi è stato dapprima illuso dal paradiso della
concessione, attirare e respingere con l'intenzione di infliggere continuamente
tensione psicologica, ferimento intimo, senso di nullità , irrisione al disio,
umiliazione pubblica e privata, inappagamento fisico e mentale degenerante se
ripetuto in ossessione e disagio scivolante da sessuale ad esistenziale (con
rischio di non riuscire più a sorridere nel sesso e di avvicinarsi ad una donna
senza vedervi motivo di patimento, tirannia e perdita di ogni residuo interesse
per la vita), usare insomma sugli l'arma della bellezza in maniera per certi
versi ancora più malvagia di quanto certi bruti usino sulle donne quella
fisica) non è un diritto, è una vera e impunita forma di violenza sessuale
psicologica ai nostri danni.
Se toccare un culo (o un seno) costa anni di carcere e esclamare un
complimento qualche mese, allora il fare le stronze, come ormai costume in ogni
luogo e tempo, dalla strada alla discoteca, dalla scuola all'età adulta,
suscitando ad arte il disio per poi compiacersi della sua negazione, infliggendo,
per vanità, capriccio, interesse economico-sentimentale (autostima) o sadico
diletto, tensione emotiva, irrisione al disio, umiliazione pubblica e privata,
senso di nullità, frustrazione intima, sofferenza fisica e mentale,
inappagamento a volte fino all'ossessione e disagio se ripetuto da sessuale ad
esistenziale (con rischio di non riuscire più in futuro a sorridere alla vita e
al sesso, né di avvicinarsi ad una donna senza vedervi motivo di patimento,
tirannia e perdita di ogni residuo interesse per la vita) dovrebbe essere
punito con decenni, perchè il danno alla psiche è notevolmente maggiore (e va
dalla cosiddetta "anoressia sessuale" al suicidio, da una quasi
patologica timidezza al farsi avanti con le ragazze alla completa impossibilità
futura a sorridere e volere in tema di corteggiamente in particolare e di
"amore" in generale, e quindi anche di "vita" in senso
pieno, dal precoce bisogno di prostitute ad un disagio psichico ora celato con
l'ironia ed ora pronto ad esplodere in eccessi di aggressività).
Il fatto che gli uomini, per obbligo culturale a mostrarsi forti e
cavalieri e per plagio psicologico femminista (che li dipinge come carnefici
anche quando sono vittime) in genere non lo ammettano non significa non esista.
Qualcuno dice che dobbiamo piangere invece di combattere? Beh, già
tanti uomini, secondo le lamentele delle donne, così fanno. Io dico invece che
dobbiamo difenderci da chi ci vuol far piangere. Quindi il tanto vituperato
testosterone è ANCHE un’autodifesa naturale dalla tirannia e dalla menzogna di
chi usa lagrime, disii e debolezze erotico-sentimentali.
***
CAPITOLO III.
(SUL FEMMINISMO COME ULTIMA FORMA DI
TOTALITARISMO)
Il femminismo è l'ultima e più terribilmente compiuta forma di
totalitarismo sopravvissuta al novecento e sfortunatamente (nonché
mostruosamente) passata in questo secolo, in quanto, come tutte le ideologie
totalitarie, ha la pretesa di cambiare antropologicamente l'uomo in nome di un
bene utopico (che è ovviamente distopico per chi la pensa diversamente) futuro
(a costo di distruggere materialmente e moralmente quello che l'uomo è nel
presente, nonché le vite stesse dei singoli uomini non disposti a conformarsi
al sistema sociale imposto o semplicemente d'intralcio per i fini di
quest'ultimo). Se non bastasse la denigrazione costante (insegnata fin dai
banchi di scuola) del genere maschile basata sull'identificazione dell'uomo
come violento-oppressore in sé, dall'alba della storia, per non dire ab aeterno
(con effetti curiosamente comici e contraddittori, se si pensa a come
le stesse donne, ormai la quasi totalità del corpo docente, insegnino a scuola
ad amare, spesso con una venerazione spinta all'eccesso, le civiltà greche e
latine, inconcepibili e incomprensibili nei loro valori fondanti, nei loro miti
auto-rappresentativi ed in tutte le loro opere etico-spirituali, senza quella
concezione virile – Cicerone farebbe discendere “virtus” proprio da “vir” - propria
delle aristocrazie guerriere delle loro origini, che, finita l'ora di storia,
di filosofia e di letteratura, viene poi orribilmente banalizzata e denigrata
nel termine “mentalità patriarcale”),
se non dovesse bastare la cultura ufficiale nella quale tutto quanto è
ritenuto più o meno ragionevolmente maschile è presentato come “brutto”,
“sporco”, “cattivo”, “rozzo”, “brutale”, “primitivo” mentre tutto quanto è più
o meno sensatamente percepito come femminile è visto quale “bello”, “puro”,
“buono”, “pacifico”, “evoluto”, “raffinato”, e pubblicitaria-cinematografica
(nella quale, vedi hollywood, l'uomo è rappresentato o come un bruto da punire
con pene variabili dal calcio nelle palle alla smitragliata da parte della
donnina salta e spara di turno o, vedi gli spot Breil, come un pupazzo da
sollevare nell'illusione e da gettare nella delusione con il massimo
dell'irrisione e dell'umiliazione pubblica e privata possibili),
basterebbe osservare il comportamento della stampa “mainstream” e della
cultura “politically correct” nei confronti dei reati “simbolo” del femminismo
per rendersene conto.
Proprio dello stato di diritto è perseguire i delitti , lasciando a
filosofi, sociologi e moralisti lo studio del perchè o del per come questi
siano in relazione con la natura, la cultura, lo stile di vita e la concezione
del mondo dei vari tipi umani.
Proprio dello stato di diritto è punire i reati, non gli impulsi
naturali o sociali che potenzialmente potrebbero provocarli. Proprio dello
stato di diritto è riconoscere le responsabilità individuali, non basarsi su
colpe collettive collocate in un fumoso o perlomeno discutibile passato. Lo
stato liberale non ha fra i suoi compiti “reprimere i vizi” e “promuovere la
virtù”, ma soltanto reprimere i reati oggettivi e promuovere la legalità,
lasciando i cittadini liberi di gestire il proprio rapporto con vizi, virtù,
impulsi e forma mentale (con l'unico vincolo di non giungere al delitto).
Perseguire la forma antropologica in sé ritenuta “criminale” in
abstracto è invece un'aberrazione vagamente ispirata al senso del peccato
originale e alla presunzione di colpa da Inquisizione Spagnola e attuata, nel
mondo contemporaneo, dai regimi totalitari.
Uno stato liberale si limita a perseguire l'omicidio, non aspira a costruire
un sistema di propaganda e di costrizione culturale volto a condannare
“l'egoismo” quale “male profondo dell'uomo che, se non arginato, può portarlo
ad uccidere i propri simili”.
Uno stato liberale si propone di perseguire il furto, non si sente in
dovere di promulgare leggi e costumi per reprimere “l'avidità” che “, se non
repressa in tenera età, può portare l'uomo a derubare gli altri”.
Uno stato liberale si limita a prevenire e punire gli atti di violenza
dei cittadini sui cittadini, non arriva a proporre campagne denigratorie nei
confronti dell'impulso di aggressività (uno dei cinque fondamentali negli
esseri viventi) al punto da vietare la trasmissione di sport competitivi o di
censurare opere che esaltino il valore guerriero.
Nei riguardo dell'uxoricidio, invece (significativamente rinominato
“femminicidio” proprio per sottolineare, per opposizione di genere, la pretesa
la matrice “maschile”), lo stato voluto (e ormai quasi imposto con la pressione
mediatica e culturale) dal femminismo non si limita ad esecrare e perseguire i
colpevoli, ma pretende di dover considerare come “mandante” dei delitti la
“cultura maschile” (così generalizzata da comprendere, evidentemente, la stessa
humanitas classica che contemporaneamente si continua, senza cura del principio
di non contraddizione, a studiare e venerare e, per continuità, i poeti la cui
parola è sbocciata dal disio ) fino a giustificare la “rieducazione” più o meno
forzata (qualcuno dei commenti femministi da voi si spinge a parlare
apertamente di cure ormonali anti-testosteroniche) di tutti gli uomini non
ancora allineati ai dogmi del (nazi)femminismo.
Quanto allo stupro, se uno stato liberale si dovrebbe limitare a
perseguire e punire i singoli colpevoli (una volta provata al di là di ogni
ragionevole dubbio la loro colpevolezza, si spera), lo stato “femminista”
pretende invece di criminalizzare (o perlomeno colpevolizzare) l'intero
desiderio naturale dell'uomo per il corpo della donna, al punto da:
- considerare reato un semplice sguardo (un imbecille con la toga ha fatto anche questo, non nel mondo islamico, dove la cosa avrebbe una parvenza di senso se accostata al simmetrico e parimenti discutibile obbligo di portare il velo, ma qui in Italia dove è invece diritto soggettivo-assoluto-inalienabile “vestirci come ci pare”, ovvero non solo non bardarsi alla mussulmana, ma addirittura diffondere disio negli astanti per puro capriccio, per moda, vanità o persino un certo qual sadico diletto, crea una disparità inaccettabile fra il diritto a mostrare e il dovere di non guardare quanto mostrato, essendo entrambi desideri naturali opposti-complementari);
- considerare molestia un mazzo di fiori (la scusa del “non richiesti né graditi” è ipocrita nel momento in cui, da un lato, pur di mantenersi ferocemente aggrappate al privilegio medievale di essere corteggiate, le donne pretendono sia sempre e comunque l'uomo a farsi avanti per primo, con tutti i rischi, i costi e i sacrifici, materiali come psicologici, connessi, e dell'altro, chi accetta, magari controvoglia, di tentare un approccio, non può sapere in anticipo se questo sarà gradito, essendo nella sorpresa e soprattutto nella spontaneità, parte della probabilità di successo, ridotta a zero se si deve chiedere un'autorizzazione preventiva o se ci si deve preventivamente interrogare sulla liceità);
- considerare non corretto un calendario di bellezze discinte (una istituzionalizzazione dell'invidia per chi è più giovane e più bella riversata sugli uomini, “colpevoli” di desiderare per natura quella stessa bellezza che le donne vengono lasciate libere di perseguire e mostrare, secondo l'opposto-complementare istinto, a volte oltre ogni limite di decenza e ragionevolezza, se si pensa a certi costumi moderni e a certi interventi chirurgici) ;
- vietare di trasmettere miss italia sulla rai (con la scusa della dignità femminile, quando un tipo di divieto così sarebbe più coerente proprio in quelle culture veramente maschili”, le quali hanno difatti sempre proposto, come ai tempi delle prime olimpiadi, il corpo maschile come simbolo di bellezza, vigore e tensione verso il divino, non già quello femminile, avente come portato la sopravvalutazione estetico-filosofica della donna propria tanto della stupidità cavalleresca medievale dell'amor cortese quanto della contemporanea età italiana in cui le ragazze in quanto tali entrano gratis ovunque – e sono complimentate e corteggiate - dove invece i coetanei maschi pagano – e sono spesso irrisi e umiliati -, in cui chiunque sia anche solo lontanamente somigli a qualcosa in grado di suscitare un minimo palpito di desiderio ha attorno a sé una corte dei miracoli di spasimanti, cavalier serventi, ammiratori e mendicanti sentimentali per non dire zerbini, in cui anche quelle di bellezza non alta possono tenere un comportamento altezzoso come fossero miss mondo data la disparità di numeri, bisogni e desideri fra i sessi ecc.);
- considerare violenza una mano sul culo (non dico che tali gesti di mano e di villano debbano essere consentiti, ma noto la sproporzione fra l'enfasi mediatica e le pene comminate in tali casi, spesso nemmeno dimostrati se non dal “libero e motivato convincimento del giudice” basato sulla sola parola della donna, da un lato, e l'assenza di una qualsiasi figura di reato prevista contro chi, senza bisogno delle mani, ma in maniera molto più profonda, usando tanto le armi del corpo quanto quelle della psiche, “tocca” la diversa e non già inesistente sensibilità maschile “facendo la stronza” e provocando ferimenti intimi, sofferenze corporali e mentali, umiliazioni pubbliche e privati e disagi da sessuali ad esistenziali conducenti all'incapacità futura di approcciarsi all'altro sesso e se prolungati o ripetuti, ad anoressia sessuale e suicidio);
- voler vietare la prostituzione (anche fra adulti consenzienti, anche senza alcuno sfruttamento) chiamandola “stupro” (o forma di violenza) mediato dal denaro, quando è proprio l'emblema di quella disparità di potere nel “mondo come volontà” (che è dietro il velo di Maya ed è quanto davvero rileva per la felicità e la libertà individuali) per natura a favore della donna e rispetto al quale tutte le altre forme di potere (appartenenti al mondo come rappresentazione, generate in passato dall'uomo e su cui le femministe reclamano pari diritti) potrebbero apparire meri e parziali tentativi di compensazione: proprio perchè allo stato di natura la posizione di forza è quella della donna, l'uomo ha bisogno di pagare per soddisfare i propri naturali desideri di bellezza e piacere dei sensi. Se davvero l'uomo fosse la parte forte non avrebbe bisogno di pagare, ma otterrebbe qualunque favore femminile come corvè medievale (esattamente come, al di fuori della prostituzione, le donne infatti ricevono qualunque favore maschile senza dover dare in cambio nulla, solo in quanto “donne”, ovvero signore in senso medievale cui si deve di tutto senza garanzie né diritti). Mai mai paga chi tiene il coltello dalla parte del manico (sono semmai i vinti a dover pagare tributi per non subire angherie). La criminalizzazione della prostituzione ha difatti proprio l'obiettivo di impedire all'uomo di compensare con denaro (ovvero con il lavoro e il merito altrove) le disparità naturali di desideri a favore della donna, per permettere a questa di essere sempre circondata di schiavi amorosi o aspiranti tali , da cui trarre ogni profitto economico, sentimentale e psichico, su cui permettersi di tutto, o grazie al cui forzato interesse sentirsi eternamente belle e giovani (le veramente belle e realmente giovani diverrebbero irraggiungibile per l'uomo comune, data la sproporzione, tanto in numeri quanto in intensità di bisogno, fra fanciulle disiate e uomini disianti e l'impossibilità di ricorrere a sacerdotesse a pagamento): la potenziale tirannia di una moglie, di un'amante o di una fidanzata sarebbe a quel punto totale e senza scampo, molto più penetrante di qualunque forma di totalitarismo conosciuta la quale ha sempre e comunque avuto il limite di poter agire sulla sfera politica e difficilmente su quella erotico-sentimentale. A riprova di tale volontà vi è la disposizione, da parte dei fautori della criminalizzazione dei clienti, a sovvertire l'ordine normale di ogni legge e di ogni morale, per il quale, una volta stabilita l'illiceità di un commercio (ad esempio la droga), è, fra i due, più colpevole chi sfrutta il bisogno, il vizio o il desiderio altrui vendendo, rispetto a chi compra. Mentre lo spacciatore non potrà mai difendersi dicendo che vende droga solo perchè non ha trovato un lavoro migliore, la prostituta nelle medesime condizioni di bisogno è considerata tanto priva di volontà da rendere colpevole il cliente che se ne avvale. Si tratta evidentemente di una distorsione motivata da ben altre ragioni dalla semplice constatazione che la droga uccide ed il sesso no. Qui si sta valutando il libero arbitrio di chi vende, non si sta paragonando l'oggetto del “turpe commercio”. Che poi il commercio di piacere sensuale sia davvero turpe è un fatto assai discutibile, e dipendente dalla soggettiva interpretazione morale dei singoli individui che non dovrebbe riguardare lo stato liberale. Probabilmente soltanto chi crede ancora alla favola paolina del corpo vaso dello spirito santo il cui uso spregiudicato è assai più peccaminoso di qualunque altra violazione può valutare davvero in questo modo. In un mondo in cui nella sfera sessuale si è giunti praticamente alla pornografia sistematica spacciata come emancipazione e diritto sessantottini (lo stesso stato svedese che vieta la prostituzione finanzia spettacoli lesbici) e in quella lavorativa il mettere il proprio cervello e il proprio studio (ovvero quanto di più caro e di più nobile ogni giovane dovrebbe avere pensando ad un sensato ordine di valori e a quanto è costato coltivarli) in vendita al miglior offerente del turbinio capitalista è divenuto il dogma dominante, l'argomento della dignità del corpo sessuato e dell'immoralità della vendita di un servizio sessuale è davvero difficile da ritenersi credibile (se non appunto, tenendo presente il crudo interesse femminista).
- Oltre a farsi beffe della presunzione di innocenza usando schemi legislativi di tipo fascista (presunta parte lesa sentita come testimone contro accusato che, non avendo l'obbligo di dire la verità, non ha però lo stesso peso quando depone e non può dunque di fatto difendersi in mancanza di prove oggettive: tipico schema da regime con l'interesse a far prevalere l'accusa sulla difesa) per poter mandare in galera qualunque uomo sulla sola parola di qualunque donna, anche prima e anche senza riscontri oggettivi e testimonianze terze della presunta “violenza”.
Uno stato liberale avrebbe poi definito un reato come stalking facendo
riferimento a quanto oggettivamente limita la libertà e genera timore, non
avrebbe accettato una definizione così ampia e vaporosa da contenere
potenzialmente tutto quanto è non solo possibile, ma sovente necessario (perchè
preteso dalle interessate) nel
corteggiamento.
Chiunque non abbia fatto all'amore soltanto col telescopio, per dirla
alla Leopardi, sa benissimo come proprio dalla disponibilità a resistere,
insistere e ritentare
(esattamente come si dovrebbe fare nell'arte bellica, cui con acuta
intelligenza Ovidio accostava l'ars amandi)
molte donne testino il reale interesse del loro “pretendente” e usino
come altrettante prove che l'uomo è costretto a superare con arguzia,
sacrificio e abnegazione proprio i loro stessi rifiuti, i loro stessi più o
meno simulati gesti di disinteresse, le loro stesse fughe,
poiché proprio grazie a ciò possono nel frattempo
valutare le doti da loro potenzialmente apprezzabili per un eventuale
rapporto. Chi si arrende ai primi dinieghi sa in anticipo che finirà a
confidare i propri teneri sensi con le stelle dell'orsa. Ci si aspetterebbe
dunque che un legislatore serio o perlomeno umano prevedesse, piuttosto,
un'attenuante nel caos in cui un uomo, nell'esercizio del proprio ingrato
compito di corteggiatore, incorresse in un comportamento al limite del
penalmente rilevante, non già che, come voluto oggi dalla legge femminista, anche
atti che nulla avrebbero di rilevanza penale (fiori, cioccolatini, telefonate),
possano diventare reati solo perchè colei che a posteriori non vuole più quello
che prima forse pensava di volere dice di sentirsi “turbata”.
La stampa, difatti, riporta solo i casi in cui il persecutore è davvero
tale e arriva ad uccidere la vittima (casi per i quali lo stalking è stato
evidentemente inutile e l'applicazione seria di leggi ordinarie sarebbe stata
necessaria e sufficiente) tacendo quelli in cui si tratta di mariti denunciati
solo per trattare da posizione di forza una causa di divorzio, di fidanzati che
tentano di riallacciare un rapporto (se così non si comportassero con le loro
amate sarebbero poi accusati dalle stesse di “averle lasciate andare”), di “inesperti
amanti” che hanno interpretato un no per un sì (ma se fossero incorsi
nell'errore contrario sarebbero stati tacciati di pusillanimità), quando non
addirittura di persone che nulla hanno fatto e sono semplicemente vittime di un
tentativo di vendetta, ricatto o estorsione per via giudiziaria.
La cultura femminista va oltre. Non solo esagera ad arte fatti e numeri
per creare emergenze inesistenti, sed etiam pretende di bollare come
“criminale” tout court la forma maschile del sentimento amoroso (esiste persino
una trasmissione dal titolo “amore criminale” dove l'aggettivo è ovviamente
volto non solo grammaticalmente al maschile). Addirittura in rete trovate donne
e femministi che chiamano “Inno degli stalker” canzoni d'amore disperato (nel
senso pienamente contrastato dell'odi et amo Catulliano, quale solo un petto di
poeta può sentire) come “Bella stronza” e l'intera poesia italiana dai primi
siciliani inventori del sonetto agli ultimi cantori post-Dannunziani
dell'eterno femminino viene descritta come “sintomo dell'incapacità maschile di
amare che si rifugia nell'idealizzazione” (non sanno che è impossibile
invaghirsi davvero di qualcosa senza prima sognarlo e quindi necessariamente
idealizzarlo, specie per il giovane uomo, avente come primo contatto con
l'oggetto del proprio amore proprio il senso di
bisogno-mancanza-irraggiungibilità, figlio del “tirarsela” del gentilsesso).
A voler esagerare, poiché tutti i reati sono conseguenza della natura
umana, si dovrebbe ritenere “cosa buona e giusta” sradicare quest'ultima e
trasformare i cittadini in robot o in rieducati da “metodo lodovico” di
“Arancia meccanica” (abolendo il libero arbitrio). Poichè, fortunatamente,
nemmeno nel più buio medioevo si è pensato questo e nessuno se non qualche
pazzo ha mai voluto distruggere l'uomo
solo perchè la sua natura è fallace, non si capisce perchè proprio per
la specifica natura maschile si dovrebbe giustificare uno “sradicamento” o una
“rieducazione” come quanto voluto dalla Boldrini e dall'Espresso. O, meglio, lo
si capisce conoscendo la natura femminista della boldrini e quella totalitaria
della stampa al di lei seguito.
Insomma, lo stato voluto dal femminismo agisce oggi come uno stato
antisemita, il quale, anziché limitarsi a combattere seriamente l'usura e la
tirannia delle banche, usasse i singoli episodi di strozzinaggio per promuovere
la maledizione degli ebrei in quanto tali e la loro forzata “conversione” (solo
perchè diversi, fra essi, sono feroci speculatori finanziari, esattamente così
come diversi, fra gli uomini, sono uxoricidi, stalkers, stupratori e
molestatori).
***
CAPITOLO IV.
(SUI SISTEMI DI VALORI FEMMINILI E
MASCHILI)
Se pensate che la sezione precedente sia stata troppo formale e
trascuri il discorso valoriale, vi contento subito. Non inizio volentieri
discorsi “valoriali”, poiché uno dei motivi per cui ho sempre apprezzato il
mondo sedicente libero è la possibilità di coesistenza (grazie ad accordi
formali) fra persone con valori teoricamente opposti. Poiché ormai la
coesistenza fra me e certe donne è fortemente compromessa dall’ultimo
femminismo che utilizza a mani basse mitologie matriarcali, e poiché qualunque
discorso puramente razionale sarebbe impotente contro un discorso basato sulla
persuasione del mito, oppongo alle mie nemiche un mito dimostratosi in grado
non solo di sconfiggere il loro, ma pure di superarlo in capacità di generare
“verso l’alto” dello spirito e “verso l’oltre” della storia.
Che i valori classicamente attribuiti dalle femministe all’uomo
(“autoritarismo”, “violenza”, “sopraffazione”) siano davvero negativi è
qualcosa di sostenibile soltanto a valle della sovversione dei valori operata
duemila anni fa dal Cristianesimo nella morale e portata a compimento in
politica negli ultimi secoli ad opera del fronte “egalitario” e sedicente
“progressista”. Come nota il Nietzsche anticristiano, infatti, essi potrebbero
essere più realisticamente visti, alla chiara luce di una vita ascendente, come
i valori del grande sì alla vita (signoria aristocratica che, imponendosi sulla
massa umana indistinta ed informe della preistoria, segna il vero passaggio
alla storia e insegna al mondo nuove bellezze e significati, stabilendo per
l’umano una forma con la forza di un martello e il tocco di un artista, amore
per la lotta da cui nascono l’affermazione e la grandezza,
“etica guerriera” che funge da fondamento etico-spirituale di intere
epoche quale noi possiamo ancora leggere in Omero e in Virgilio).
“Autoritarismo” è il nome che chi vorrebbe tiranneggiare con le
blanditie della seduzione, le perfidie della parola, gli inganni delle
speranze, dei sentimenti e dei desideri erotici (donne) o le minacce
dell’aldilà e i sensi di colpa (preti) dà alla vera autorità fondata su lealtà,
coraggio ed etica guerriera.
“Violenza” è l’insulto che il debole fa del forte il quale possieda la
“vis-roboris” (forza in Latino, associata a qualcosa di radicato come la
quercia, e quindi anche possibile fondamento di civiltà).
“Sopraffazione” è il termine inventato da chi in un leale scontro di
forze soccombe per delegittimare la vittoria dell’avversario.
A dimostrare questo non sono solo le parole del professore di Basilea,
né tantomeno le mie che pesano ancor meno, ma quelle dell’Iliade, dell’Eneide,
dei Poemi Persiani, dell’Edda, del Beowulf, (nelle quali non c’è traccia di
questi tre termini femministi e comunque non del loro senso negativo, mentre
molti segni sono posti su quali debbano essere i corretti giudizi di valore), di
ogni opera in cui insomma le grandi stirpi indoeuropee fondatrici di città e
civiltà hanno scelto di porre la propria auto-rappresentazione e secondo le
quali hanno deciso di darsi una forma e di pro-gettarsi nell’agone della
storia.
Quando eravamo scimmie eravamo pure tutti uguali e dati a priori
universalmente (tutte le comunità di una data specie scimmiesca vivono allo
stesso modo), ma da quando siamo uomini storici ogni stirpe ha scelto un
proprio modo di essere (come se alla specie umana fosse l’unica con il dono di
poter mutuare da questo o quell’animale quasta o quella virtù), la propria
visione del mondo, la propria corrispondente etica, il proprio specifico tipo
umano.
Dalla Grecia Omerica alla Roma Repubblicana, dall’India dei Veda alla
Persia Iranica, dai mitologici Vichinghi alla Germania Sacra e Imperiale, tutti
i popoli indoeuropei hanno avuto in comune la concezione di un uomo che si
eleva nel disprezzare quanto di più facile, pacifico, comodo, sicuro,
conservativo la vita offra e nel ricercare (tanto nell’esperienza bellica
quanto in quella spirituale) quanto di più difficile, duro, faticoso,
pericoloso e mortale esista (come appunto le imprese di cui leggiamo
nell’epica) e di un bene comune inscindibile dal compimento temerario (sia un
Prometeo che ruba il fuoco agli Dei, sia un Enea che con la volontà degli Dei
ricalca le orme di Odisseo ed Achille assieme) di opere tali, per grandezza,
potenza e durata, da costituire il mito fondativo di intere epoche.
Ogni ideologia egalitaria (prima fra tutte il cristianesimo, madre di
tutte le altre) ha contrapposto a questi miti fondativi e “differenzianti” quello
“universalistico” del peccato originale (secondo il quale la storia sarebbe
“caduta” rispetto ad una condizione di “bene” coincidente con la sottomissione
al dio unico rispetto a cui tutti sono ugualmente polvere). L’elevarsi al cielo
per forze proprie è divenuto “superbia”, lo stabilire differenze, gerarchie,
specificità di forme e ruoli nell’umano è ora “peccato” (contro dio per cui
siamo tutti figli e servi), il generare in grandezza, potenza e durata è
divenuto “idolatria” (perché Dio non ammette città ed eroi ma soltanto, masse
indistinte di fedeli e, forse, qualche santo). L’odio dell’impotenza (o, la
morale degli schiavi, o, come dico io, l’invidia) è dunque alla base della
condanna cristiana (ma, a ben guardare, anche comunista) della storia in quanto
tale (dominio dell’uomo sull’uomo o, come direbbero le femministe, sulla
donna).
Per questo sono propriamente giacobinismo, socialismo, femminismo ad
essere “antistorici” (nel senso che vogliono dannare e condannare questa
proprietà “differenziante” propria della storia).
Per Greci e Romani antichi, la vera vita non è vista nell’esistenza
meramente corporale e conservativa data dalla madre, ma in quella spirituale e
ascendente data dal padre (non a caso il Dio Apollo dice: “il padre è il vero
genitore”), cui si accede per prova iniziatica e di cui ci si deve mostrare
continuamente degni tanto in pace con la “pietas” quanto in guerra con la
“fortitudo”. La fonte di ogni valore e quindi di ogni diritto è posta non in
quanto accumuna gli uomini nel bassamente umano dell’esser nati nella stessa
specie, bensì in quanto distingue gli uomini fra loro e li eleva al più che
umano dell’affrontare ogni colpa ed ogni dolore pur di compiere quell’opera di
grandezza necessaria a divenire ciò che si è (per questo ogni città ha il
proprio mito di fondazione in cui c’è sempre qualcosa che la successiva morale
cristiana, fondata sulla credenza di un’umanità già data a propri da un dio
fuori dal mondo con pretese universali, chiamerebbe “crimine”).
Non è un caso, forse, che siano state proprio le società basate sul
sesso per cui vita e vittoria coincidono (fino dallo stadio di spermatozoo),
sul sesso che ama il pathos della distanza e l’etica della differenza (adesso
si direbbe “discriminazione”) a segnare un salto di livello quantico nell’umano
del neolitico, mentre le mitologiche società matriarcali tanto amate da
anarchici, socialisti e femministe sono state capaci, nel loro egalitarismo
fondato sul ventre materno (per non dire di peggio sulla immaginabile tirannide
femminea) soltanto di rimanere al tutto indifferenziato e informe dell’umano
mesolitico, dal quale nulla poteva sorgere di valore, significato e bellezza
proprio perché tutto era ed è destinato, nella prospettiva “tellurica” della
vita materna, a ritornare alla terra stessa dopo un’esistenza effimera.
A distinguere forme umane e ad elevarsi al cielo sono state le civiltà
che cremavano i defunti e veneravano gli eroi.
Cosa può contrappormi il femminismo alla Grecia e a Roma? Le società
matriarcali con le statuette tettone di terracotta? Società che sono andate in
pezzi appunto come vasi di terracotta appena a contatto con quelle che io
ammiro? Facile e fallace la critica femminil-femminista del “erano società
migliori e più felici ma sono state sopraffatte dai muscoli”. Solo una
femminista con l’utero al posto del cervello può pensare che gli scontri di
civiltà siano scontri di pure forza fisica. Come mostra il più drammatico e
decisivo fra questo tipo di scontri (quello fra la terrestre Roma e la
marittima Cartagine), a decidere le sorti sono sempre la forza la coesione degli Stati (Roma vinse perché lo
stato romano, fondato sull’etica virile e guerriera del contadino italico, era
più solido della plutocrazia oligarchica cartaginese fondata sui profitti
mercantili e sui soldati mercenari). Risulta dunque difficile pensare che le
comunità matriarcali pelagiche e pre-doriche e pre-romane (io direi anche un
po’ pre-umane) possano essere state una valida alternativa storica al mondo
patriarcale indoeuropeo. A maggior forza, non possono ora, con i loro miti
tellurici, suscitare, in me e negli altri uomini rimasti in piedi fra queste
rovine d’occidente europeo, una forza di carattere comunitario e anagogico
quale invece potrebbero ancora i miti di quei popoli capaci di costruire
nell’arte come nella religione, nella politica come nella storia, nel pensiero
come nella società, mirabili struttura destinata e misurare i millenni e a non
essere raggiunte dai contemporanei né superate dai posteri.
Due ultimi concetti devono essere precisati prima di concludere questo
capitolo con il rischio di (voluti da parte vostra) fraintendimenti. A chiunque
sia venuto in mente di accusarmi di “fascismo” solo perché la retorica del
ventennio ha utilizzato (almeno nei suoi momenti meno ridicoli) mitologie
(esteriormente) simili, puntualizzo che non solo tale accusa inverte l’ordine
normale delle cose (prima vi è la visione del mondo sentita per vera e poi la
scelta della parte politica più affine: chi scelga la prima sulla base della
seconda è solo un animale gregge), ma è pure superficiale, in quanto prende sul
serio quanto nel fascismo era appunto vuota retorica. Se duce e camerati
fossero stati davvero gli eredi di Lucio Emilio Paolo e di Scipione l’Africano,
allora non ci sarebbero stati nemmeno l’armiamoci e partite ed i disastri
militari d’oltremare. E ci sarebbero stati anche meno discorsi retorici, dato
che prerogativa del guerriero classico era parlare poco e combattere molto.
Nessuna considerazione negativa sul fascismo storico può però impedire a me o a
qualunque altro uomo di condividere una visione del mondo virile, guerriera e
aristocratica preesistente da millenni al fascismo e destinata ad innalzarsi
all’eterno in quanto fondamento etico-spirituale del punto più alto mai
raggiunto da una civiltà, non solo in termini di arte, religione, scienza,
etica, diritto, cultura (se rapportato tutto ai tempi), ma soprattutto (e
questo senza alcun bisogno di relativizzazione storicistica) in termini di tipo
antropologico.
Il femminismo vorrebbe un uomo nuovo addomesticato (un barboncino?), io
invece sostengo che, se c’è mai stato un tipo umano veramente degno del nome di
superuomo, nella storia, è stato proprio il tipo umano partorito dalla Lupa
Capitolina.
L’altra prevedibile obiezione è quella secondo la quale parlerei al
passato, contro lo “spirito dei tempi” ed il preteso “senso della storia”.
Innanzitutto, se vogliamo giocare a questo gioco, il mio richiamo mitologico è
comunque storicamente successivo tanto a quello delle femministe (matriarcato
basato sulla presunta “empatia”) quanto a quello dei socialisti e anarchici
(preistoria senza rapporto oppressori o addirittura senza stato), l’uno e
l’altro essendo figli della nostalgia per l’egalitarismo mesolitico da parte di
chi, all’alba della storia neolitica, ha potuto provare solo invidia verso i
fondatori di città e civiltà.
In secondo luogo, il gioco del “più nuovo/più vecchio” è sbagliato in
sé, in quanto il discorso mitico non è una relazione scientifica nella quale si
possa parlare di corretto/sbagliato, di superato/evoluto: il mito è, per sua
natura un discorso pre-razionale che non può essere dimostrato ma solo mostrato
per vero a chi ha (per nascita o esperienza) occhi addestrati a vederlo e da
cui poi, semmai, possono essere dedotte in maniera logica e razionale le
diverse morali e le diverse verità proprie ai diversi specifici tipi umani che
sentono come proprio questo o quel mito. Senza prima avere un mito non vi
potrebbe essere alcun discorso valoriale, giacchè “come debba andare il mondo”,
“come sia giusto vivere”, “come ci si senta compiuti” non sono problemi
decidibili e quindi escono dall’ambito della matematica e della fisica.
Non esistono valori e idee senza miti, e le ideologie che si propongono
come “oggettive”, “fuori dal mito”, “solo nella realtà” sono semplicemente le
convinzioni più subdole, più mentitrici, più costrittive (come il positivismo,
il quale illudeva e si illudeva di ricondurre il mondo ad un problema
decidibile o il marxismo, che pensava poter trattare scientificamente qualcosa
di non ripetibile come la storia, o, oggi, l’egalitarismo come sentire, che non
si accorge di essere solo un cristianesimo secolarizzato: i primi due, vedendo
la ragione non più come mezzo per far discendere certe conclusioni da certe
premesse, ma come struttura stessa del reale, hanno portato a delle utopie
distrutte e distruttrici, l’ultimo ci
sta impedendo di opporci alla decadenza politica, militare, economica,
demografica, etnica, materiale e ideale di noi popoli Europei avviati
all’estinzione o alla dissoluzione nel tutto indifferenziato del mondialismo).
E poi chi ha detto che la storia abbia un senso unico? Hegel dalla sua
cattedra? Troppo accademico e troppo imbecille per capire che il senso della
storia altro non è che la direzione ad essa impressa dagli imprevedibili esiti
degli scontri fra forze umane.
Se “i tempi” sono i sistemi di valore e i modi di vita voluti e imposti
da nature con me inconciliabili, da umanità a me nemiche, allora io li
combatto. Non chino certo il capo obbediente. A posteriori, tutto può essere
giustificato con la frase “era storicamente inevitabile”. A priori, non solo “il
senso” può essere previsto, ma non è neppure determinato (per fortuna altrimenti
non varrebbe nemmeno la pena sopravvivere per vedere come va a finire). L’elezione
di Trump è stata (pare) bell’esempio di svolta non prevista dai moderni
sostenitori (femministi) dello spirito dei tempi. Quasi come lo furono le due
torri per i sostenitori della “fine della storia”. A prescindere da come finirà
la partita in quella cloaca di femminismo e di menzogne egalitarie che sono gli
USA (al di là delle battute del grasso presidente), non è tempo di rinunciare
alla pugna perché “è destino che il mondo diventi femminista”. Il tempo della
storia è una sfera nella quale in ogni momento si può decidere la direzione e
in cui il passato può essere meta e modello per il futuro. Solo chi non vuole
combattere pensa che lo scontro sia già deciso da un imperscrutabile teleologia
“scientista” (ma se anche fosse, pure la lezione omerica – Achille ed il suo
Fato - ci direbbe di combattere comunque, se non per la gloria immortale,
almeno per dare testimonianza che una vita veramente virile e non soltanto
banalmente maschile sia possibile oggi, come ieri e come sempre).
***
CAPITOLO V.
(SULLA QUESTIONE DELL’EUDEMONIA,
INCONCILIABILE CON IL FEMMINISMO)
Qual’è ora la critica? Sono insensibile alla sofferenza che la mia
grande storia impone?
Trascuro l’eudemonia? La felicità di donne e uomini? E vabbè, lascerò
gli spazi aperti dell’iperuranio per tornare sulla terra dove gli esseri umani
“di tutti i giorni” vivono e soffrono.
Sforzandomi di essere un po’ empatico, noto che comunque mai, nella
storia antica, è stato negato alla donna di poter vivere da femmina fra altre
femmine secondo valori femminei. Mai gli uomini hanno costretto le donne a
combattere, uccidere, compiere imprese. Semmai costringevano gli uomini liberi
ad essere degni della loro libertà mostrandosi valorosi in guerra. Solo oggi si
pretende che l’uomo viva da donna in un ambiente effemminato e secondo valori
femminei. Anzi, si vorrebbe pure non fosse più uomo (rieducazione). Addirittura
non fosse più (pulizia di genere sognata da qualche ultrafemminista
scandinava). Scusate, ma a questo punto mi concentro sulla questione della
felicità degli uomini.
Non è la società ad essere sessista: la natura lo è. La società, se
amante di quanto possiamo chiamare "equo vivere", può semplicemente
tentare di compensare le disparità naturali, o, meglio, dare agli individui la
libertà di compensarle.
E' quello che ha sempre fatto il mondo umano prima dell'avvento del
femminismo.
Oggi come ieri la donna ha sempre privilegio di natura d'essere
apprezzata, ammirata e desiderata in sé per la bellezza (e, quando non vi è,
comunque per l'illusione data dal desiderio). Per naturale compensazione l’uomo
ha sempre potuto proporre altre doti per essere simmetricamente apprezzato, a
seconda del mondo. Il mondo eroico ed omerico aveva la virtù guerriera, il
mondo cavalleresco e cristiano la cultura, il pensiero, le belle arti, la
conoscenza, il cor gentile, il mondo capitalista ha il denaro. Forse un futuro
(utopico) proporrà finalmente il puro spirito. Il mondo attuale, intanto, con
tutti i suoi difetti, ha il denaro. Avrà tutti i difetti ma almeno permette
all'uomo di compensare la disparità di desideri (non necessariamente sessuali)
e inclinazioni sentimentali con la donna. Non è assurdo. E' invece assurdo un
mondo che programmaticamente voglia eliminare le differenze.
E' ipocrita poi un mondo che chiama svantaggio il privilegio e chiama
discriminazione una scelta (dettata da diversi desideri di natura).
Se vige la morale pseudo-cavalleresca, per cui sia per cultura sia per
legge è sancito che l'uomo debba mantenere la donna (se questa non ha voglia di
lavorare o di cercare un lavoro in grado di farle guadagnare quanto desidera),
se anche per un semplice rapporto "free" l'uomo deve dare infinite
cose in pensieri, parole, opere, fatiche, dignità (quando deve recitare da
cavalier servente) e soprattutto doni e regali e inviti a cena, se una donna
può ottenere (economicamente e sentimentalmente, oppure in moneta di vanagloria
e autostima) tutto senza dare nulla più che un sorriso, se viene accettata,
disiata o comunque socialmente apprezzata in ogni dove di per sè, in quanto
"soave fanciulla", per la sua grazia, la sua leggiadria ed ogni altra
dote attribuitale per natura e cultura (addirittura anche quando, come accade
spesso, manca la vera bellezza) perché mai una donna dovrebbe faticare per
arrivare a guadagnare tassativamente una certa cifra (come ha l'obbligo l'uomo
per non essere un nulla) o raggiungere una certa posizione di prestigio
socio-economico (quella indispensabile invece all'uomo per essere ammirato e
potersi circondare delle donne che desidera) dato che già per natura piovono su
di lei privilegi principeschi (in relazione all'uomo), complimenti,
desiderabilità e ammirazione, o comunque accettazione, sociale e per natura le
viene dato tutto?
Sarebbe molto stupida se non ne approfittasse, facendosi per quanto
possibile mantenere o, se ama il lavoro, scegliendo una professione per puro
gusto e non per soldi (ed è per questo e solo per questo che le donne svolgono
mestieri meno remunerati ma non per questo meno appaganti in sé).
Se deve sempre essere l'uomo a "spendere" (sia materialmente,
sia idealmente) per la sola speranza di conquista, deve esistere per lui ALMENO
LA POSSIBILITA' di guadagnare di più, altrimenti dove trarrebbe le risorse per
la "rincorsa"? O per voi è naturale che l'uomo viva perennemente
infelice e inappagato?
La donna, per privilegio sia di natura sia di galanteria, ha la
possibilità, nella sfera dell'AUTOSTIMA (erotica ed affettiva), di essere
ammirata, disiata ed apprezzata al primo sguardo e, in quella del POTERE
(personale e sociale) di influenzare l'agire e il pensare degli uomini (e
quindi la storia), SENZA BISOGNO di faticare, compiere "imprese" o
mostrare eccellenza in doti particolari (come i cavalieri che se non le
dimostrano non sono né disiati né ammirati) o di raggiungere una posizione di
preminenza sociale ed economica (come invece gli uomini che senza di essa non
contano nulla).
E tutto questo vale per natura, poiché è il maschio ad essere indotto
dalla natura ad onta di perigli e fatiche a seguire la femmina nel più fitto
dei boschi e chissà dove, non viceversa.
Tale disparità DEVE essere compensata in un modo o nell'altro
dall'ordine sociale. Il denaro è un mezzo (o il mezzo attuale).
Se le persone sono lasciate libere tale "riequilibrio"
avviene senza discriminazioni, non per effetto di divieti o svantaggi alle
donne, ma per conseguenza di libere scelte diverse dettate da bisogni diversi,
inclinazioni diverse e doti naturali differenti. E' se si pretende di eliminare
a posteriori tale riequilibrio che si compie azione ingiuste e discriminatoria
in quanto un'uguaglianza imposta penalizzerebbe gli uomini DATO CHE il non
avere il femminista 50 e 50 non deriva da discriminazione contro le donne ma
dal fatto che esse (per privilegio naturale e culturale) hanno meno bisogno di
certe posizioni e di certe carriere (per essere felici o anche solo socialmente
accettate e amorosamente disiate) e quindi non vi spendono tanto tempo ed
energia come sono invece obbligati a fare gli uomini: conseguentemente
correggere a posteriori per avere il politicamente corretto 50 e 50 sarebbe
come, per il puro gusto di "pareggiare", rallentare a metà di una
competizione chi ha corso e faticato di più perché aveva più necessità di
arrivare prima.
Se davvero si realizzassero i propositi del ministero delle pari
opportunità la situazione sarebbe totalmente a svantaggio dell'uomo, e non
certo pari o giusta.
Il desiderio è dispari.
La donna gode di un privilegio nella sfera, diciamo,
erotico-sentimentale, che le deriva direttamente dalla natura. Tale posizione
di privilegio (o, se vogliamo, di preminenza) diffonde i propri effetti,
direttamente o indirettamente (e in maniera assolutamente indipendente
dall'organizzazione sociale, la quale non può, anche volendo, vincere la natura
in questo), in ogni aspetto della vita dato che, come mostra Freud, tutto ciò
che desideriamo o vogliamo, consciamente o meno, deriva dal profondo degli
impulsi sessuali. Di ciò non si può non tenere conto parlando di
"parità", sempre che si abbia come fine una parità effettuale o,
meglio, una uguale possibilità di ogni individuo di cercare la via per essere
felice, o meno infelice possibile, secondo i propri personalissimi ed
ingiudicabili parametri. In caso contrario significa o che si è troppo stupidi
per capire la sostanza del problema oltrepassando l'apparenza o troppo perfide
e false per ammettere di avere un vantaggio (molto più influente della
superiore forza fisica maschile) il quale DEVE essere compensato da una società
che voglia essere non dico giusta, ma almeno FUNZIONANTE (solo quanto è
bilanciato, come lo è stato il mondo della tradizione, può funzionare a lungo).
La terza via significa semplicemente ritenere accettabile la crudeltà della
natura solo perché in questo caso va (o sembra andare) a vantaggio della donna,
sottendere che l'uomo debba sempre essere tiranneggiato o reso profondamente
degno del riso da questa e definire arbitrariamente la disparità naturale come
"giustizia naturale" (ragionamento tipico delle ecofemministe: e
sarebbe interessante la loro reazione a chi sostenesse giusto per l'uomo
approfittare della brutalità fisica e delle forze naturali di coesione , ossia
del branco, per schiavizzare le donne, perché è il discorso simmetrico a questo
quello sostenuto da certe ecofemministe e da certe donne).
Rousseau credeva ingenuamente tale influenza delle donne (esercitata
per mezzo di ciò che nell'uomo è di più profondo e di più irrazionale) un fatto
positivo in quanto naturale, ma Leopardi e Schopenhauer hanno ampiamente
dimostrato come alla natura poco importi dell'infelicità o della felicità dei
singoli individui.
La felicità è un concetto speculativo e infinitamente soggettivo nelle
sue possibilità (o, per i pessimisti, illusorio nella sua impossibilità), e non
è raggiunto con il puro soddisfacimento del corpo, ma è oggettivamente
riscontrabile che laddove non possono essere pienamente appagati i bisogni
naturali (fra cui, per l'uomo, quelli di bellezza e di piacere, dei sensi come
delle idee), l'essere vivente dotato di autocoscienza è inevitabilmente
infelice.
Per questo è disumano non voler concedere all'uomo di poter compensare
la situazione svantaggiata di partenza o lamentarsi delle conseguenze
macroscopiche di ciò (vedi statistiche sui redditi), ovvero di come a volte
l'uomo (non tutti sono imbecilli come sembra) vi riesca con le proprie forze
(lavorando e guadagnando di più, sacrificandosi di più nella carriera perché
non ha altra scelta).
Se una donna può avere la bellezza per essere apprezzata, ammirata,
disiata al primo sguardo, un uomo deve poter acquisire altre doti parimenti
oggettive e immediatamente apprezzabili per essere allo stesso modo ammirato e
disiato e "pareggiare il rapporto" con la bella donna.
Se ella possiede la bellezza, di cui, sensitivamente e
intellettivamente, l'uomo ha naturale ed intimo bisogno e verso cui è mosso da
profondo e immortale disio, egli deve possedere e poter offrire a lei altre
doti di cui la donna ha pari bisogno e brama e verso le quali è mossa a
desiderio con ugual forza.
Ogni rapporto umano, fra uomo e uomo o fra uomo e donna, è fatto di
dare ed avere (non necessariamente e banalmente in senso economico,
ovviamente). Solo gli stolti possono credere il contrario e confidare nella
gratuità (la quale non esiste neppure nel sentimento).
I rapporti fra uomo e donna nel regno dei cieli non mi interessano. Io
parlo di quanto accade sulla terra. E' raro si incontrino San Francesco e Santa
Chiara e poiché l'uomo deve poter godere realmente, di quando in quando, delle
bellezze che abitano la terra, deve anche possedere quelle doti in grado di
allettare e realisticamente disporre a concedersi le donne vere prima delle
sante.
Se non possiede tali doti non ha nulla di concreto da offrire alla
donna e da lei disiato e gradito, per cui non potrà sorgere alcun rapporto
costruttivo con lei. E l'uomo con ogni probabilità sarà infelice e inappagato
sia sensitivamente sia intellettivamente, oltre che mai apprezzato, con conseguenze
sia distruttive sia autodistruttive.
Possibile che donne laureate e intelligenti non capiscano queste
semplici verità?
Sono gli spermatozoi che devono correre all'ovulo, non viceversa. Non
possono essere "rallentati" per "parità". E sono gli animali
maschi che devono lottare, inseguire e raggiungere e conquistare l'animale
femmina che sta ferma e non ha obblighi. E per correre, inseguire, competere,
serve la benzina, la forza, la fiducia. E la benzina, la forza, la fiducia, in
un mondo capitalista, risiedono nelle possibilità economiche. Stupido negarlo.
E negare dunque che la situazione attuale non sia frutto di una
discriminazione, ma del tentativo disperato degli uomini di compensare il
naturale privilegio delle donne significa essere ciniche e bare. Oltre che
FALSE!
***
CAPITOLO VI.
(“EMPATICHE E SENSIBILI”? FORSE VERSO CAGNOLINI E GATTINI. NON CERTO VERSO L’INESPERTO
AMANTE)
Di passaggio le femministe parlano di un mondo matriarcale basato sull’empatia.
Chissà cosa per essa intendano le femministe che vogliono abolire la prostituzione.
Empatiche?
Voi dite di essere empatiche. Ragione vorrebbe che questa empatia vi
facesse comprendere come l'essere ridotti a freddo specchio su cui provare
l'avvenenza, a pezzi di legno innanzi a cui permettersi di tutto, a burattini
da manovrare e poi gettare dopo averlo irriso, il sentirsi insignificanti
innanzi a colei che tutti vogliono e tutto può, l'essere attirati solo per esser
fatti apparire innanzi a sè e agli altri puro nulla, l'esser trattati come molesti,
noiosi o privi di qualità dopo essere stati attratti ad arte, l'esser additato
come banali scocciatori dopo essere stati indotti a tentare un approccio, il
subire sofferenze fisiche o mentali come conseguenza dell'ingenuo trasporto
verso la bellezza, o addirittura il venire scelti fra tanti solo per patire
l'inganno più forte, l'illusione più dolorosa, l'umiliazione più profonda,
l'esser sollevati per un attimo dalla turba dei disianti, l'essere ingannati da
una promessa di paradiso e poi venire sadicamente dichiarati indegni, stupidi e
dannati, gettati nell'abisso più profondo della frustrazione sempiterna d'ogni
disio, nell'inferno dei patimenti fisici e mentali, nel girone dei senza
speranza delle cui pene ridere, e, se l'inganno va anche oltre, l'essere
oggetto di perfidie sessuali, tirannie erotiche e sbranamenti
economico-sentimentali, costituiscano ferite tali da provocare almeno alla
lunga nella psiche danni paragonabili a quelli subito da chi per un trauma
sessuale non può più vivere quella sfera serenamente e felicemente. Per voi
invece si tratta di lamentele di sfigati e di misogini.
Non avete diritto a chiamare misogino chi sente come ingiusto, in un
mondo che parla di uguaglianza, una disparità evidente e insormontabile proprio
in ciò che più conta di fronte alla natura, alla discendenza, alla felicità
individuale (e non parlo del semplice rapporto sessuale, bensì di tutto quanto
il pensiero della sua possibilità comporta: serenità, autostima, influenza
sociale). Non è misoginia, è voglia a questo punto di una parità vera, e non di
una disparità (con tanto di potenziali perfidie, tirannie e irrisioni)
travestita da uguaglianza. Io riconosco il mio bisogno di godere della bellezza
nella varietà delle forme viventi, ma cerco chi lo voglia appagare per sua
volontà, non perchè costretta.
Io constato che, pur essendo distinto come uomo dall'autocoscienza, ho
in comune con gli altri animali i bisogni naturali (il cibo, il sonno, il
sesso), i quali devono ovviamente essere periodicamente soddisfatti, a pena di
infelicità profonda, frustrazione intima, disagio da sessuale ad esistenziale,
ossessione. Tutto ciò, in quanto natura, non ha alcuna valenza morale (né in
positivo, né in negativo). E non ha pure nessuna relazione con l'intelligenza,
con la cultura o con la sensibilità personale. Si tratta semplicemente di pure
necessità di natura. Se non si mangia si muore di fame, se non si dorme si
deperisce fino a divenire fantasmi, se non si beve ci si disidrata come foglie
morte. E se non si appaga di quando in quando il proprio naturale bisogno di
bellezza e di piacere dei sensi in una maniera quantitativamente e
qualitativamente sufficiente, la vita si dimezza in altro modo: dapprima vi è
una tristezza occasionale, una malinconia diffusa, una rassegnazione, poi una
vera sofferenza che partendo dalla sfera sessuale, come ampiamente spiagato da
Freud, influenza il rapporto con l'altro sesso in genere e la vita tutta (con
chiaro rischio di autodistruzione), e con i meccanismi ben noti dalla
psicoanalisi, è destinata a scoppiare prima o poi in qualche modo (contro sé o
gli altri). In ogni caso (anche senza giungere a conseguenze estreme), alla
lunga, si conosce l'infelicità sia sensitiva sia intellettiva, la frustrazione
intima, e l'inappagamento da fisico diviene mentale e, se reiterato, degenera
in disagio non più solo sessuale ma esistenziale, con anche il rischio di
generare ossessione (nella quale non vi sono né libertà né possibilità di agire
lucidamente in imprese grandi e belle). Per questo serve l'appagamento facile e
scorrelato all'obbligo di passare per le forche caudine del corteggiamento o
per il capestro del matrimonio monogamico (per non dire degli obblighi
"religiosi"): per non essere né infelici né tiranneggiabili.
Parimenti constato che anche le donne hanno diritto a vivere libere e felici e
a non essere costrette da chicchessia ad avere o meno rapporti con questo e con
quello o a sottoporsi a obblighi esterni (di concedersi per questo e non per
quel motivo). Proprio perchè voglio far coesistere le due cose e non mi sogno
di giustificare rapporti strappati con la costrizione o la minaccia parlo
sempre della necessità per l'uomo di "poter conquistare e mostrare doti
immediatamente apprezzabili ed intersoggettivamente valide al pari della
bellezza, con le quali essere universalmente mirato, amorosamente disiato,
socialmente accettato, al primo sguardo e a prescindere da tutto il resto, con
la stessa rapidità e la stessa forza ineludibile con cui le donne lo sono per
le loro grazie corporali". Non parlo mai di "obbligo per le donne di
concedersi a tutti e/o in cambio di niente", proprio perchè io desidero
solo rapporti in cui la donna (in quanto interessata ai soldi, al prestigio e
alla posizione sociale, oppure ad eventuali mie doti di sentimento e
intelletto) sia mossa verso di me dallo stesso bisogno e dalla stessa brama che
io provo per la bellezza.
Non è sicuramente misogionia. E' invece forse è un modo troppo
femminile di avvicinarsi al sesso. Probabilmente il mio problema è quello di
volermi sentire "donna" nel rapporto, di non accettare il ruolo
attivo richiesto all'uomo, di sognare di potermi abbandonare, come a una furia
divina, alle onde della voluttà innanzi a colei nel cui corpo si può amare
venere citerea, lasciando che sia lei a fare tutto. Ma non ho forse diritto in
un mondo libero ad essere anche effemminato e problematico?
Voi parlate di sensibilità, ma quando si tratta di comprendere quanto
provato da ogni giovane maschio che si trovi ad avere l'obbligo di avvicinarsi
alle coetanee (sulle quali già fiorisce la bellezza) senza ancora possedere nè
ricchezze nè poteri per bilanciare un eventuale rapporto, nè alcuna dote
immediatamente apprezzabile ed intersoggettivamente valida con cui propiziarlo,
divenite stranamente insensibile.
Essere costretti a passare ore ed ore a parlare per sorprendere o
compiacere, cercando di indovinare argomenti interessanti per una sconosciuta,
rendendosi in ciò verosimilmente ridicoli o perlomeno affettati, e sopportando
che lei si atteggi continuamente a miss mondo, ostenti noia o interesse a
tratti, si "assenti" continuamente (materialmente o col pensiero)
come chi avrebbe di meglio da fare, o comunque risponda con sguardi e parole
esprimenti dei "beh, questa volta piccolo puoi hai detto qualcosa di
passabile" o "mah, come sei prevedibile, di capaci di questo ne trovo
mille", volti a far sentire il giovane maschio, che sta ingenuamente (e
magari, giocoforza data l'inesperienza, maldestramente) tentando di farsi
apprezzare, uno fra i tanti, un puro nulla, un banale scocciatore o comunque un
giullare da irridere nel disio, un freddo specchio su cui provare la propria
avvenenza, un pezzo di legno innanzi a cui permettersi di tutto o addirittura
un pupazzo da sollevare per trastullo nell'illusione e da gettare con
noncuranza quando annoia! E tutto mentre si è angustiati dal disio e potenziale
oggetto di tutti i ferimenti (reali o psicologici), le umiliazioni (pubbliche o
private), gli inappagamenti (carnali e mentali) e le relative sofferenze
(fisiche ed emotive) che la "dama" di turno avrà la compiacenza di
infliggerci per motivi di autostima, stronzaggine, brama di sfoggiare una
preminenza erotico sentimentale o puro divertimento e vanagloriosa prepotenza!
Io mi rifiuto di tollerare tali tensioni psicologiche, tali ferimenti intimi,
tali irrisioni al disio, tali umiliazioni pubbliche e private, tali sofferenze
di corpo e di psiche, tali inappagamenti fisici e mentali degeneranti (se
reiterati) in ossessione, tali disagi da sessuali ad esistenziali (sfocianti in
problemi variabili dall'anoressia sessuale al suicidio). Siamo ormai nel 2018
ed io è dal 20 anni (1998) che ho smesso di dare la possibilità alle coetanee
di stronzeggiare su di me. Inoltre non accetto (come avviene nei rapporti
"normali) di dover pagare con probabilità 1 (se non in denaro, comunque in
regali, doni, inviti o altre utilità economiche, oppure in tempo,
corteggiamenti e rinunce varie, o ancora in sincerità e affetto, per non dire
in dignità quando dovrei fare da giullare o da cavalier servente) per poi
ricevere in cambio un piacere funzione di variabile aleatoria. Per questo
ritengo più onesto e dignitoso per entrambi un rapporto mercenario in cui
l'assenza di sentimento (ma perchè in quelli "gratuiti" il sentimento
c'è ed è vero?) non implica quella di rispetto o di una qualsivoglia forma di
coinvolgimento emotivo. Non è pigrizia la nostra: è solo CONSAPEVOLEZZA
dell'irrealtà di certe situazioni (nulla è gratis) della disparità di numeri e
di desideri, e voglia di evitare atteggiamenti inutili e alla fine, quando
insistentemente ripetuti, anche non dignitosi (oltre che, nel caso di uomini
sensibili come me, di evitare a priori la possibilità di lasciarmi irridere,
umiliare o sbeffeggiare nel desiderio dalle stronze o comunque di farmi sentire
"uno fra i tanti", un banale scocciatore, di guardarmi dall'alto al
basso, di guardarmi a prima vista con sufficienza se non con aperto disprezzo,
e di ferirmi in seguito emotivamente o di provocarmi disagio psicologico,
soprattutto nelle situazioni "asimmetriche" in cui è evidente la
bellezza ma non il suo corrispondente intellettuale, ossia il cor gentil, che
solo potrebbe consentire all'uomo di star di paro a quel dono divino). Non
c'entra la paura di non riuscire: è un calcolo delle probabilità (e non
venitelo ad insegnare a me), un puro calcolo razionale. Deriva da una disparità
di numeri: tutti bramano la donna bella e giovane e conforme al sogno estetico
dell'anima moderna (abbastanza restrittivo), mentre al contrario le donne hanno
desideri più vasti, apprezzano varie virtù, varie forme e varie età dell'uomo
(per cui tanti potrebbero eventualmente piacere loro), le belle (nel senso
specificato) sono poche e la concorrenza è altissima, anche quelle di bellezza
mediocre sono circondate da stuoli di ammiratori. E' un rapporto di mille a
una. Deriva da una disparità di desiderio: tutti gli uomini bramano, accanto
ovviamente agli altri rapporti, una notte di ebbrezza e di piacere con una dama
ammaliante, mentre le donne in genere non si concedono se non per amore o per
interesse, oppure perchè infatuate (ossia come se fossero innamorate, per opera
del seduttore che ha saputo interpretare la parte del dongiovanni conquistando
la vanagloria femminile).
La probabilità diviene una su un milione, poichè non si può pretendere
di pensare che proprio colei da noi bramata fisicamente sarà attratta da noi e
dalle nostre eventuali doti d'intelletto e di eloquenza. Non si può pensare che
colei che ci apprezzerà sarà a noi gradita fisicamente. Inoltre si potrebbero
possedere doti valide e virtù seduttive, ma non quelle gradite alla donna in questione.
Si possono avere tante chiavi ma delle porte sbagliate. Oppure si potrebbe
avere la chiave giusta, ma potrebbe essere impossibile usarla per le
circostanze inopportune (come i moderni luoghi di divertimenti in cui l'uomo
d'intelletto è ridotto ad un nulla, giacché non può mostrare le sue principali
doti, ossia la cultura e l'eloquenza, senza le qual cose la ragione stessa
sarebbe vana, mentre la beltà muliebre è comunque resa evidente ed esplica la
tutta la sua attrattiva).
E in ogni caso: perché doversi considerare in obbligo a fare qualcosa?
Perché doversi sentire, in ciò che dovrebbe essere un ristoro dalle fatiche
dello studio e del lavoro, sotto esame? Perché dover accettare di porre la
donna, a priori, su un piedistallo, conferirle doni e offerte votive (in senso
materiale o figurato), preghiere e corteggiamenti? Perché pagare comunque in
moneta o in sentimento, sincerità (quando si recita da seduttori per la sua
vanagloria) o dignità (quando si fa da giullari per farla divertire) per lei, e
ricevendo in cambio la sola speranza? Perché dover accettare la tensione
psicologica da lei imposta (attraverso il suscitare ad arte il nostro
desiderio, attraverso il volerci far recitare da seduttori, attraverso il suo
metterci alla prova per pura vanagloria, per diletto, per autostima o a volta
anche per derisione e umiliazione)?
Anche nei casi di non stronzaggine non è comunque piacevole ricevere
continuamente rifiuti come regola (non si può pretendere di pensare di essere
graditi nella maggioranza dei casi).
Perché provare n volte con la speranza che la n+1 esima sia quella
giusta?
Non siamo tester! Gli animi più acutamente sensibili sono profondamente
feriti, emotivamente, da questa situazione "asimmetrica".
Mentre una giovane donna è apprezzata e disiata, come Beatrice, al
primo sguardo ("benigna sen va sentendosi laudare") un giovinotto ha
necessità di una "occasione" per dare sfoggio di quelle virtù che
potrebbero renderlo gradito agli occhi dell'amata. Questo fa sì che vi sia una
chiara disparità nel rapporto (tale disparità è il vero motivo della ricerca di
sacerdotesse di Venere da parte degli uomini gaudenti). Non sempre l'occasione
esiste (e se esiste, proprio per la sua cruciale rarità , ha spesso la tensione
di un esame, non certo il piacere di un divertimento). Non sempre l'occasione è
facile (per valutazioni numeriche e di circostanza). Quasi mai: più probabile
che le virtù possedute, anche se reali, non siano la vera chiave del consenso
di lei (bisognerebbe essere fortunati ad avere in tasca proprio la chiave della
porta desiderata) o che, anche qualora lo siano, non riescano ad essere
estratte dalla tasca, o vengano perdute nel buio della mediocrità dei
divertimenti di massa o nella confusione delle banalità moderne. Spesso dunque
il disio resta unilaterale ed allo stadio di illusione. Eppure l'incantamento
estetico-amoroso rimane reale per l'uomo, giacché parte della natura.
Un fanciullo brama la donzella avvenente così come un fiore sboccia, un
usignolo canta, un prato fiorisce, una cascata irrompe, e quando il suo desire
si volge in attività d'intelletto allora i versi e le rime scorrono con quella
medesima magia propria dei prodigi di natura, come l'avvento della Primavera o
il riflesso sull'onda lucente di quella conchiglia d'argento che chiamiamo
Luna.
La donna, al contrario, proprio perchè raramente desidera un uomo per
la bellezza e se ne invaghisce al primo sguardo, e più facilmente ella vuole
prima sondarne il valore per ammirarvi altre virtù, quali la bravura nel creare
sogni e illusioni, nel far vivere all'amata "la favola bella che ieri
t'illuse, che oggi m'illude", e non ultime la cultura e l'eloquenza, tutte
virtù che si esplicano primieramente attraverso la capacità e l'ordine del
dire, senza le qual cose la ragione stessa sarebbe vana, non rimane ammaliata
da principio (lo sarà forse dopo), e resta libera di decidere senza
incantamenti.
Per questo, almeno all'inizio della conoscenza, ed al contrario di
quanto, secondo voi, è da un punto di vista fisico, è l'uomo e non la donna a trovarsi
in una condizione di debolezza. E questo voi ben lo sanno le escort (è il
motivo della loro forza contrattuale), ma ben dovrebbero saperlo delle blogger
mosse da onesta curiosità intellettuale. L'uomo è già invaghito e agisce
secondo i riflessi condizionati dell'istinto (seppur filtrati dalle convenzioni
sociali), ed il suo intelletto e la sua immaginazione sono angustiati dal
desiderio, non permettendogli, spesso, di mostrare il meglio delle proprie
virtù intellettive, culturali e oratorie, né di sentirsi a proprio agio e
rilassato, mentre la donna si deve ancora invaghire e la sua mente è pronta per
lasciarsi inebriare "dalle parole che dici umane" o per capire
l'inadeguatezza dell'aspirante amante, comunque più libera di scegliere.
E' infatti evidente che, mentre un uomo mira alla bellezza, una donna
ama altre virtù, quali la capacità di dimostrare il proprio valore, di
affermarsi, la capacità di far sentire alla fanciulla di vivere in una favola,
l'abilità di perdere la donna negli imperi occulti del sogno, la brama di
erudizione e di squisitezze intellettuali, la sete di cultura, la tensione
all'eccellenza nel fare come nel dire ed altre infinite virtù che si esprimono
soltanto con l'uso della parola, con la modulazione della voce, con il tempo dato
al corteggiamento e che in un giovane ed inesperto non possono per forza di
cose svilupparsi in quella prima età nella quale sulle donne fiorisce la
bellezza.
E non ho intenzione nel nome di una mitologica emancipazione (che piace
alle donne sempre e solo nei diritti e mai nei doveri, sempre e solo quando
concede loro nuove possiiblità e mai quando toglie privilegi acquisiti) di
ritrovarmi in situazioni nelle quali alla donna è data la possibilità di
sfoggiare le proprie grazie e spandere subitaneamente disio negli astanti
mentre a me è preclusa quella di compensare, se non con lo sfoggio di
particolari doti di sentimento o intelletto (impossibile nei fugaci e caotici
incontri moderni, nel mondo moderno privo di delicatezza e di gusto), con
quanto costruito con la cultura, il denaro, il successo, la fama, il potere, il
lavoro, lo studio, il merito o la fortuna individuali. Ecco perchè fino a
quando non avrò ottenuto una certa posizione di prestigio o preminenza nella
società rifiuterò qualsiasi contatto con le donne non sia l'accordo commerciale
dichiarato come nel culto di venere prostituta. E questo non certo perchè sia
contrario in linea di principio all'emancipazione femminile (vorrei
semplicemente aggiungervi l'emancipazione maschile, specie dal corteggiamento,
giacchè non è razionalmente ammissibile che voi possiate cumulare antichi
privilegi e moderni diritti e soprattutto usare le vostre armi naturali senza
limiti remore nè regole dopo aver privato l'uomo, con l'illusione
dell'uguaglianza, di tutto quanto aveva saggiamente costruito nella storia,
nella cultura e nella società proprio per bilanciare in desiderabilità e potere
il rapporto con voi sì da poter vivere libero e felice e non vedere la sua vita
ridotta a una sequenza di irrisioni, umiliazioni e inappagamenti sempiterni
d'ogni disio come de facto è in quel folle periodi di "uguaglianza
primitiva" imposta costituito dall'età scolare). Limitatamente al
problema, il femminismo è innocente: le italiane, nell'ars amandi, erano tali e
quali anche ai tempi del Leopardi. E' evidente da come l'hanno trattato.