sabato 29 luglio 2017

STAMPA DI REGIME



PREFAZIONE

Mai avrei immaginato di trovarmi (apparentemente) a imitare quel vecchio rudere liberal-libertino di Berlusconi nell’esercizio della stroncatura e del motivato insulto verso gli articoli dell’Espresso. Questa volta però, a conferma che il peggior lascito di Berlusconi è l’antiberlusconismo (capitò così, come ebbe a notare il comunista Bordiga, anche per il fascismo, il cui principale danno che ancora riesce a recare all’Italia dopo settant’anni è la retorica antifascista usata quasi sempre a sproposito e sempre a danno di chiunque esca dal coro “democratico”), mi ci trovo tirato per i capelli come Fra’ Cristoforo quando, ancora non frate, si dovette scontrare a duello con quel nobile prepotente, fanfarone e mentitore. Care giornaliste, stavolta avete passato il limite del sopportabile nel vostro accusare di maschilismo chiunque non accetti le grandi menzogne ideologiche e le piccole menzogne quotidiane del femminismo. Avete imparato questo schema ai tempi del Berlusca e delle feste di Arcore e pretendete di continuare ad usarlo contro chi inizia a vedere come l’estremismo egalitario del politically correct sia in contrasto non solo contro ogni etica, ogni logica, ogni diritto ed ogni ragione, ma pure con la semplice realtà constatabile nella vita di ognuno di noi (persino dei comuni cybernauti):

“Invito a consultare in prima persona il commentario dell'articolo citato e poi rileggere questo.
Le femministe non tollerano dai maski discorsi apodittici su cosa sarebbero le donne e su cosa dovrebbero essere, e pur facendolo di continuo a parti invertite, un tempo dicevano chiaro che l'utero rendeva superiori, e tutto tornava. Dopo la 2°ondata, arrivarono a negare la differenza sessuale dopo averla elevata a metro dell'Universo. Ma dato che senza porre alcuna specificità(superiorità) femminile è difficile fare le femministe, arrivate a dire di tutto e il suo contrario, tengono però ferma una sola linea guida: il maskio è l'origine di ogni male.
Il senso comune attuale vede come negativa una certa cosa?  La tal cosa viene dal patriarcato.
Non accetti la nostra opinione? Abbiamo "punto sul vivo" eh?
Una miniera,per chi voglia corredare di esempi un manuale di fallacie.”

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INTRODUZIONE

Nell’Arte di avere ragione, Schopenhauer fa notare come uno dei più bassi trucchi per controbattere un’opinione avversa senza doverla nemmeno valutare nel merito consista nel portarla all’esagerazione mostrandone gli assurdi. Qualunque principio infatti, anche il più giusto, produce distorsioni se spinto all’eccesso. Anche senza pensare che redattori e giornaliste dell’Espresso siano in grado di capire Schopenhauer, rileviamo come abbiano ricorso a tali infimi trucchi per non dover controbattere con argomenti alle motivate critiche piovute dopo il loro recente articolo/video/servizio misandrico.
E’ bastato loro pubblicare, fra le migliaia di risposte pervenute, le quattro o cinque inevitabilmente cretine (o, comunque, esagerate ed esagitate) per credere di aver replicato a tutti i presunti “maschilisti” mostrando la pretesa “verità” dei loro articoli. Purtroppo, non hanno tenuto conto che, con internet, oggi si possono facilmente smascherare certe fake news da parte del sistema dominante che un tempo sarebbero rimaste “verità ufficiali”. Frequentando altri forum infatti, si può rilevare come, fra le varie repliche inviate al giornalaccio, ve ne fossero di ben più strutturate, argomentate, moderate e condivisibili di quelle “becere e maschiliste” mostrate. E questo al netto del fatto che, dopo una ormai pluridecennale (era già in atto quando lo scrivente frequentava le scuole medie con annesse professoresse comuniste-femministe) campagna mediatica e culturale antimaschile volta a presentare l’uomo come fonte di ogni male, colpevole di ogni delitto, responsabile di ogni oppressione storica ab origine se non ab aeterno, di cui la Boldrini e l’Espresso sono solo i due ultimi e più insopportabili esponenti, sia comprensibile (se non giustificabile) anche uno sfogo apparentemente becero e gratuito se preso fuori contesto. Ciò è tanto più vero se si considera come parallelamente, nella realtà, molte donne continuino a sfruttare gli antichi privilegi assieme ai moderni diritti, pretendano quote di potere nel “mondo come rappresentazione” (politica, educazione, economia, società) ma non cedano nulla del loro potere naturale nel “mondo come volontà” (corteggiamento, seduzione, possibilità di scelta e potere contrattuale nei rapporti erotico-sentimentali), utilizzino le leggi femministe sul divorzio per vendette arbitrarie o semplici modi di spennamento altrui, si sentano in diritto di permettersi di tutto davanti all’uomo senza dover temere nulla (giacchè chi reagisse sarebbe bollato come anti-cavalleresco e socialmente allontanato per non dire arrestato) alla pari delle scimmie sacre del templio di Benhares cui già Schopenhauer paragonava con buone argomentazioni certe occidentali.

I più formali hanno subito obiettato che lamentarsi di maschilismo quando la terza carica dello stato si lascia andare ad affermazioni sulla presunta “superiorità femminile” basate puramente sulla trita e ritrita mitologia matriarcale è fuori luogo. Quelli ancora più attenti al politically correct hanno rilevato come tale atteggiamento configuri (contro il maschile) quella stessa ipotesi di sessismo che da molte parti si vorrebbe rendere reato (se espressa contro il femminile).
I più attenti alla sostanza hanno tentato di farvi capire come affermare qualcosa di chiaramente ideologico contro una parte della popolazione rientri fra le prerogative dello stato totalitario prima ancora che etico e voler ridurre al silenzio le obiezioni screditando moralmente chi sostiene un pensiero avverso (“beceri e maschilisti”) sia un degno corollario da propaganda di bassa lega:

“La cosa curiosa è che vittimizzarsi "in quanto donna" per la condizione di donne con le quali si ha in comune poco o nulla oltre ai genitali, accusando in blocco ogni maschio del pianeta vivente o già polvere, per ciò che si interpreta a priori come frutto di oppressione patriarcale, è l'ordinaria prassi femminista.
Però rifilare una risposta come la sua alla prima docente/giornalista/ intellettuale etc benestante che scriva l'ennesimo articolo fempiagnone sulla precarietà economica  delle donne, come se gli uomini avessero tutti il posto fisso e come se uomo avesse le stesse possibilità di una donna di farsi mantenere senza stigma sociale  ... beh sarebbe sessismo, misoginia, maschilismo arrogante, etc.”

Un loico del calibro di quel famoso diavolo dell’inferno dantesco che strappa il defunto all’angelo con un sillogismo, dovrebbe aver fatto notare come l’accusa di “oggettificare” la donna rivolta contro il desiderio maschile per la bellezza corporale (nonché spesso anche per l’illusione sentimentale) poggi su un semplice malinteso linguistico. Per costruire una frase descrivente un’azione (ovvero qualcosa di aderente alla realtà effettuale e non alle fumisterie femministe figlie delle scoregge intellettualizzate hegeliane) è infatti necessario, oltre al soggetto, il complemento oggetto. Esso può essere sia una cosa sia una persona, senza che in quest’ultimo caso sia implicata una sua riduzione ad oggetto in senso morale (o moralista). Se il romanzo della vita va avanti, la stessa persona oggetto di azione in una frase può benissimo essere soggetto nella frase successiva. Se uomini e donne non fossero alternativamente soggetti e oggetti l’uno dell’altro, non potrebbero mai agire e la loro non sarebbe una vita ma una pura riflessione letteraria. Nel caso dell’amore sessuale, poi, l’alternanza è anzi una contemporaneità: la donna è oggetto del desiderio di natura dell’uomo (al suo primo apparire, con la rapidità del fulmine e l’intensità del tuono, come l’irrompere di una cascata) così come quest’ultimo, ahilui, è oggetto della selezione naturale operata dal genere femminile (il quale ha il privilegio di scegliere da una sorta di piedistallo – che con l’età degenera in cattedra - senza il dovere di muoversi per primo, rischiare, competere come invece volente o nolente deve fare la controparte). Perché essere oggetto della prima azione dovrebbe essere offensivo ed esserlo nella seconda azione dovrebbe invece considerarsi normale ed accettabile? Entrambe le azioni sono naturali e, fra le due, è la seconda quella che rischia di ferire la psiche di animali senzienti (come ben sa chiunque abbia l’ingrato compito di farsi avanti alla cieca fra mille pretendenti, senza poter porre innanzi nulla di immediatamente visibile, intersoggettivamente valido e probabilmente apprezzato con cui bilanciare la bellezza che invece fiorisce nella controparte, con il conseguente rischio di venire trattato con malcelata sufficienza, aperto disprezzo o addirittura sadica stronzaggine dell’illudere per ferire, irridere e umiliare).
La prima azione dà potere contrattuale all’oggetto ed è tanto lontana dall’essere disdicevole che la gran parte delle donne fa follie pur di apparire bella. Anzi, in generale l’oggetto di disio è di per sé su un piano superiore al soggetto disiante (che deve infatti elevarsi e faticare per raggiungerlo come un cavaliere alla ricerca del Graal – non è un caso se le storie medievali alla base della sopravvalutazione estetico-filosofia delle figura femminile in Occidente, di cui tutto l’Oriente ride come ne avrebbero riso i Greci, hanno questo schema). Lamentarsi dunque della donna-oggetto è del pari un lamentarsi di un privilegio da parte delle giovani, un invidiare qualcosa di perduto da parte delle attempate e una pretesa irrealistica da parte di tutte: vogliono forse impedire all’uomo di compiere qualunque azione? Renderlo cioè impotente sotto ogni punto di vista sessuale e sociale? E in tal caso chi rimarrebbe loro da selezionare? Anche loro cesserebbero di essere soggetti in quell’ambito.

Qualcuno ha argomentato semplicemente che non tutti picchiano le donne, anzi, la frase “sii uomo” significa per i ragazzi l’insegnamento a non toccarle neanche con un fiore (cosa su cui personalmente non sarei concorde se si permette contemporaneamente al presunto fiore di bastonarci molte volte e in diversi modi). Ciò dovrebbe bastare a smentire che la violenza sarebbe connaturata all’educazione maschile tradizionale.

Qualcuno più ardito ha fatto notare come la pretesa emergenza “feminicidio” sia una montatura, nel senso che non solo i casi sono in calo, ma sono comunque, e da sempre, di molto inferiori a quelli in cui la vittima di un omicidio è un uomo, un uomo muore sul lavoro, un marito ha la vita moralmente e materialmente distrutta da una ex che usa l’applicazione a senso unico delle leggi femministe su aborto, divorzio e violenza sessuale. Da ciò si dovrebbe dedurre che sono gli uomini a vivere un maggiore disagio sociale, tanto da dover ricorrere al crimine (o rimanerne vittime) è ancora quello maschile il sesso considerato “sacrificabile” per utilità sociale, che il femminismo (almeno quello attuale mainstream) tutto è tranne che un movimento per l’uguaglianza e la felicità di uomini e donne.
Quelli davvero coraggiosi possono aver fatto notare che fra gli uomini contati come carnefici perché hanno ucciso la ex vi sono sia quelli che, quasi contestualmente, hanno tolto la vita pure a loro stessi, sia quelli la cui vita è stata già da prima (per opera di colei che voi vedete solo come vittima) distrutta economicamente, psicologicamente e socialmente, oppure ridotta a quella di un esule ottocentesco privato di famiglia, casa roba.
Nel primo caso si può solo ravvisare la coerenza disperata di un uomo che quando chiamava la propria amata “vita de la mia vita” non stava semplicemente recitando un celebre verso di Torquato Tasso, ma soltanto anticipando la verità di un amore che non può vivere senza il proprio oggetto. Nel secondo caso si dovrebbe capire come il continuo aizzare leggi e giudici contro gli uomini possa portare solo ad altre ingiustizie e ad altre follie.
Solo la Boldrini può pensare che un amore così forte sia figlio del considerare la “donna un oggetto”. Per un oggetto non solo non si uccide, ma non ci si dispera nemmeno. Amore, odio e disperazione nascono dal desiderio e dalla perdita di qualcosa o di qualcuno cui, semmai, si attribuisce troppo valore (addirittura più valore della propria vita nel caso dei suicidi). Il fatto che il numero dei maschi sia superiore sia fra i suicidi sia fra i cantori del sesso opposto dovrebbe far capire la verità della massima nietzscheana secondo la quale “le donne sembrano sentimentali, gli uomini invece lo sono”. Il fatto che, per tornaconto personale o ideologico di genere, si trascurino i suicidi d’amore maschili e si dica che gli uomini non sanno amare di fronte a uomini che commettono sì uxoricidio, ma per follia amorosa per una donna (non voglio indagare se indotta o meno dalla stessa), reclamando al contempo pene ancora più severe (addirittura “preventive) per chi “sbaglia” nel corteggiamento o nell’innamoramento (quando già infinita è la pena dello strazio dell’anima per l’irraggiungibilità dell’amata, che talvolta, magari, si diverte pure a stronzeggiare e a irridere), dimostra anche l’assoluta verità del suo compendio “gli uomini sembrano crudeli, le donne invece lo sono”.

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CAPITOLO I. (SUL FALSO MITO DELLA “VIOLENZA MASCHILE”)

Dovrebbero vergognarsi le femministe che sul vostro blog hanno dimostrato di considerare chi, per capriccio, vendetta o interesse, distrugge una vita vilmente con i meccanismi giudiziari e socioecomonici concessi in occidente alle donne, “moralmente superiore” all’uomo che, per reazione o per semplice disperazione, agisce in prima persona, sapendo di affrontare la galera o la morte, ed usa le uniche armi che gli rimangono (la violenza disperata).
I più diretti, poi, vi hanno certamente spiegato che il termine “violenza maschile” è menzogna perché, se siamo tutti d’accordo nel condannare moralmente la sopraffazione arbitraria, solo chi sta dalla parte del sesso dotato, in ipercompensazione delle minore forza fisica, di ben più variegate e penetranti possibilità (ho detto possibilità, non abitudine, quindi questa non è un’accusa misogina ma una constatazione oggettiva) di prevaricare il prossimo tramite le sue debolezze erotico-sentimentali, la parole obliqua, il vittimismo, la perfidia, la tirannia coi sensi di colpa, nonché il pronto aiuto altrui, può ritenere l’impiego, in qualsivoglia conflitto fra due individui, di un chiaro e aperto atteggiamento di ostilità meno “degno” rispetto ai mezzi sopra citati.
La dimostrazione che le donne non siano meno “cattive” solo perché in genere usano altri mezzi di sopraffazione e che la stessa violenza fisica non è loro aliena è data da una statistica che non viene mai citata: la violenza sui minori da parte di chi dovrebbe tener loro compagnia e coccolarli. Diverse società di baby-sitting, infatti, consigliano da tempo di preferire i ragazzi alle ragazze in quanto meno inclini a percuotere i pargoli. Se davvero la violenza fosse maschile, non sarebbe credibile che appena la disparità di forze fisiche volge a favore delle donne, queste diventino ancora più violente degli uomini.
D’altronde, è noto agli etologi che sono proprio gli animali più “armati” a risultare più “corretti” nell’uso della violenza (un lupo, a differenza di un topo, non finirebbe mai un proprio simile che si arrenda) e siano, in ogni specie, gli individui più “deboli” a ricorrere alla scorrettezza e al combattimento distruttivo (non potendo competere in quello leale e rituale). In genera la natura dota chi è più forte anche di più capacità di controllare e ritualizzare la forza (i cervi, pur potendo sferrare calci pericolosissimi, lottano solo con le tanto decorative ma assai meno letali corna). Ricorda qualcosa anche fra noi umani?

Chi avesse studiato l’etologia, la quale è una scienza, al contrario degli sproloqui sociologici, psicanalitici e intellettualistici di chi tutto attribuisce ai “rapporti di produzione” e “all’oppressione dell’uomo sull’uomo” o “dell’uomo sulla donna”, potrebbe anche rispondere che l’aggressività non è un “male” (tantomeno un male specificatamente maschile), ma semplicemente uno dei quattro fondamentali impulsi di ogni essere vivente (assieme all’istinto sessuale, a quello di fuga, ed alla fame). Tutte le specie e tutti gli individui proteggono se stessi e il gruppo, emergono nei conflitti insiti alla vita, conquistano, competono, sono curiosi, scoprono, esplorano, si organizzano, insomma, sono viventi, proprio in quanto anche aggressivi.
Se è vero che l’impulso aggressivo può portare a rischi autodistruttivi (come nel caso dei topi che se troppo vicini possono sbranarsi fra loro), è anche vero che, qualora ritualizzato, può risolvere molti conflitti sociali (si pensi al rito del corteggiamento fra cervi, dove il combattimento a regole che escludono la “slealtà” ed obbligano il soccombente ad accettare la sconfitta) e addirittura porsi alla base di sentimenti di amicizia (probabilmente nati dalla necessità di allearsi di due ex nemici contro uno nuovo). Nelle società umane è facilmente dimostrabile il legame fra l’impulso aggressivo e le attività di valore comunitario e anagogico (dalla scoperta “scientifica” all’ordinamento sociale secondo l’etica guerriera dell’antichità classica, passando per lo sport e l’amore per l’esplorazione e il nuovo).
Vedere l’aggressività come qualcosa di solo maschile e di solo negativo sta portando alla distruzione di intere generazioni (oltre che dell’intera società occidentale). I popoli europei si sentono in colpa per aver avuto per millenni il primato storico sugli altri (non certo meno “cattivi”, semplicemente con meno armi da opporre), con il risultato che oggi hanno persino paura a seguire i propri interessi anziché quelli di una presunta umanità universale (dietro cui si cela la tirannia dell’universale finanza senza patria e a favore della quale, dopo il non chiaro defenestramento dell’ultimo papa Benedetto XVI, parla da San Pietro, fraintendendo il Cattolicesimo e buttando a mare secoli e secoli di dottrina dai padri della Chiesa a San Tommaso d’Aquino, un gesuita). I bambini a scuola vengono costretti dalle maestre e dalle professoresse a rifuggire dalla “competizione”, con il risultato che lo studio (senza il necessario stimolo competitivo-aggressivo) diventa per essi una noia mortale. Se è vero che alle ragazze è stato permesso di volgere la propria aggressività in alcuni particolari aspetti sociali (come l’abbigliamento e, direi io, la stronzaggine), va rilevato che, se si tolgono lo studio e lo sport, ai ragazzi non rimangono tante vie per dare sfogo ad un impulso naturale altrimenti a rischio di ripiegarsi su di sé in atti distruttivi ed autodistruttivi. Sarebbe questa la chiave interpretativa per spiegare la difficoltà dei giovani maschi a scuola, piuttosto che le menate femministe sul maschile da rieducare e sul patriarcato da sradicare. Di contro, il femminismo non fa altro che rappresentare gli uomini come inutili e dannosi e sognare di mondi senza di essi, cosicchè un giovane sottoposto a questi messaggi neanche tanto subliminali (basta che accenda la tv, veda un spot o legga certi libri di testo) è facilmente preda di comportamenti antisociali, non vedendo in questa società (dai valori così ostentatamente “pseudopacifistico-femminili”) né il modo in cui volgere verso l’alto i propri impulsi in qualcosa di valore comunitario, né quello di riconoscersi e sentirsi apprezzato.
Io farei anche notare che il presunto “amore universale” pretestuosamente associato alle donne è quanto di più anti-vitale vi sia al mondo, non solo nel noto senso extra-morale in cui lo intenderebbe l’autore dell’Anticristo, ma anche più specificatamente nel senso che la vita diviene per un uomo invivibile. Anche al di là di ogni considerazione anagogica sulla necessità del conflitto come “padre di tutte le cose” (Eraclito docet), e di un’aristocrazia “olimpica” in grado di far compiere alla vita un “salto di livello qualitativo” (come fu indubbiamente l’edificio della civiltà ellenica), di giustificare in senso superiore l’esistenza (come appunto gli eroi di Omero),
su cui ogni uomo ancora libero di pensare al di là dei dogmi egalitari cristiani, socialisti e progressisti potrà fare le proprie considerazioni, la vita è minacciata eudemonicamente dai principi “boldriniani” dell’accoglienza e del femmineo “amore”. Si tratta di un falso amore (finta agapè) che, proprio in quanto falso già nell’istinto (bisognerebbe “non aver paura dell’altro”, resistere “alla tentazione dell’egoismo”, ovvero dell’istinto più vero e sano contro cui nessuno è mai riuscito a produrre argomenti seri, dato che già nell’antichità dovettero inventarsi Altri Mondi e punizioni infernali) preclude il vero amore (vero eros, nascente dal desiderio di piacere e di perpetuazione “in” questo mondo). E’ interesse infatti delle sole donne avere una società in cui tutti gli uomini possano entrare e in cui nessuno abbia ragionevole speranza di essere accettato da una donna se non dopo lungo, periglioso, costoso (in ogni senso materiale e morale) ed estenuante corteggiamento seguito da arbitraria, imprevedibile, insindacabile, spietatissima selezione.
Sarebbe invece interesse degli uomini avere una società nella quale (come nella antiche caste guerriere e aristocratiche) pochi e selezionati uomini entrino a far parte (dopo una prova basata sul merito, sul coraggio, sul valore, sull’abilità) e, almeno ai livelli superiori, quasi tutti fra essi abbiano ragionevole probabilità di apparire interessanti agli occhi delle più belle fanciulle proprio perché parte di un’elite (elemento parificante all’appartenenza della controparte all’insieme desideratissimo delle giovani e belle – anche quando manca la bellezza subentra l’illusione del disio a privilegiare la femmina in tali situazioni ed a rendere necessaria una compensazione).
Forse nessuno ha detto questo nel timore di apparire troppo cinico ma io, sperimentato il cinismo della femmina italica, ho molti meno scrupoli nel prendere le contromisure anche da un punto di vista intellettuale e politico.

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CAPITOLO II. (SULL’ALTRETTANTO FALSO MITO DELLA “BONTA’ FEMMINILE”)

Il fatto che la donna non sia affatto portata per natura alla mediazione ed alla conciliazione, bensì al litigo, alla tirannia e al trarre le estreme conseguenze dai propri privilegi è data dal suo ordinario comportamento laddove gode di privilegio per natura e ordine sociale: il CORTEGGIAMENTO
Basti pensare a come sfruttano il nostro desiderio di natura per farci recitare da giullare o da seduttore, a seconda che vogliano divertirsi o che bramino compiacere la propria vanagloria, o, come avviene spesso con quelle che si ritengono dame corteggiate, per spingerci a far da "cavalier servente" disposto a priori ad affrontare rischi e sacrifici degni, come diceva Ovidio nell'ars amandi, delle campagne militari, a sopportare, insomma, rinunce e privazioni, per non ricevere in cambio nulla se non la sola speranza.
Le giovin ragazze fanno ivi sovente un uso della propria avvenenza (o, a volte, dell'illusione del desiderio che fa vedere e bramare all'uomo la bellezza anche dove essa non v'è) ancora più malvagio e tirannico di quanto la già di per sé malvagia maggioranza dei maschi (almeno i cinque sesti del genere) non faccia della propria forza fisica e prepotenza (verso il restante sesto che detiene il senno e studia ed è deriso).
Perchè dovrebbero comportarsi diversamente una volta giunte nel mondo del lavoro, se gli uomini, mossi dalla stupidità politicamente corretta e dalla demagogia femminista, anzichè limitarle con un sistema di balance of power, concedono loro (come in questo caso) addirittura un potere in più?
Del resto basta guardare alle società matriarcali già presenti in natura, dalle api agli elefanti, per rendersi conto di quanto infinitamente infelice sia in esse la vita del maschio. Il grado di coscienza proprio dell'essere umano la renderebbe poi intollerabile. Erra chi pensa la femmina della specie umana essere men crudele o addirittura (fatto impossibile in natura) più comprensive ed inclini al compromesso o alla pietà.
Tutta questa vicenda e le stesse risposte delle donne (tranne qualche eccezione) mi dimostrano ancora una volta quanto ho sempre pensato, per conoscenza degli Antichi e per esperienza del comportamento malvagio e tirannico tenuto sovente dalle femmine laddove (come in quella sottospecie di stato di natura costituita dall'età scolare) la loro preminenza diciamo erotico-sentimentale non può essere compensata dal maschio in altre sfere con la fama, col prestigio, col denaro, col potere, con la cultura, e con tutto quanto ogni uomo savio si sforza di ottenere al massimo grado per essere ammirato e disiato allo stesso modo in cui la donna lo è per le grazie corporali.
La società cosiddetta "maschilista" (ma non tale nei fatti) è stata ed è dunque necessaria, non già per opprimere (ché non è l'obiettivo dei savi) bensì per limitare i loro soprusi e le loro angherie prepotenti (storicamente è la reazione alla prepotenza del Matriarcato).
Non è vero, come sostengono le donne per giustificarsi, che la loro cattiveria sia reazione al maschilismo, ma, al contrario, è il maschiismo l'umana e pacata reazione (umana e soprattutto PACATA perché, come visto e dimostrato dalla storia, le donne reagirebbero, e molto più veementi, assolutiste e perfide, alla situazione inversa) alla tirannia che le donne in ogni modo e in ogni tempo cercano di imporre.
Si può giocare all'infinito a ribaltare la causa con l'effetto ("é nato prima l'uovo o la gallina"?), ma è d'uopo considerare quanto segue. Non ha senso citare al forza fisica dell’uomo come causa prima fra gli umani. Innanzitutto essa non decide sulla superiorità di un gruppo su un altro dai tempi dell’Uomo di Neanderthal, che era più forte ma è stato eliminato. In secondo luogo essa, pur cercando di essere una compensazione alla più profonda e sottile perfidia naturale della donna, non è mai pari negli effetti. La forza fisica da sola non pareggia la perfidia. Quindi non è vero che le donne sono perfide per difendersi dalla forza fisica, ma piuttosto che gli uomini hanno costruito il maschilismo per pareggiare, non tanto con la forza fisica quanto con la cultura e la società, la naturale perfidia femminile. Questo dimostra che il potere naturale della donna, basato sulla sessualità, rispetto a quello dell’uomo, che senza lo spirito potrebbe contare solo sulla forza fisica, è superiore e non vi sarebbe bisogno per lei di “cattiveria” per difendersi. L’uomo pareggia questo potere con l’organizzazione sociale, la cultura e lo spirito, ossia la creazione di un superio che nasce dalle singole anime e da esse si eleva ad un’oggettività superiore.
Essendo il potere delle donne fondato sulla natura e sugli istinti ad essa correlati, ed essendo quello degli uomini invece fondato sull'arte (intesa in senso lato come ciò che è opera delle mani dell'uomo) sulla parola, sulle costruzioni culturali, sociali e poetiche si deve concludere essere il secondo una limitazione del primo e non viceversa, giacché Costruzioni dell'intelletto umano sono successive allo stato di natura (Il desiderio sessuale e il suo sfruttamento a fini femminili sono preesistenti alla maggiore forza fisica del maschio umano rispetto alla femmina, tanto che in natura vi sono molte specie in cui è la femmina a divorare il maschio e mai viceversa). Inoltre il potere conferito dal suscitare desiderio sessuale è superiore a quello dato dalla forza fisica, poiché una volta che si ha il controllo della volontà che governa quella forza essa non può nuocere. Ciò è dimostrato anche dal fatto che presso gli umani le società matriarcali abbiano preceduto quelle patriarcali, ad onta del fatto che l’uomo fosse già fisicamente più forte della donna e a scorno delle tesi femministe su una perfidia suppositamente data dalla reazione alla prepotenza fisica. Quindi risulta assolutamente errato introdurre la presunta superiorità fisica del maschio per tentare di invertire l’ordine temporale di questi fatti: la realtà è questa, il maschilismo è reazione pacata alla prepotenza della femmina.

E dicendo “prepotenza” sono stato elegante. Dovevo dire “stronzaggine”. Il "fare le stronze" (ormai divenuto costume nei luoghi di divertimento come in quelli di lavoro, negli incontri brevi e occasionali per via o in discoteca come in quelli più lunghi e sentimentali), ovvero trattare con sufficienza o aperto disprezzo chiunque tenti un qualsiasi avvicinamento erotico-sentimentale, mostrare pubblicamente, per capriccio, vanità , aumento del proprio valore economico sentimentale o gratuito sfoggio di preminenza, le proprie grazie solo per attirare, illudere e sollevare nel sogno chi poi si vuole far cadere con il massimo del fragore, della sofferenza e del ridicolo, diffondere disio agli astanti e attrarre a sè (o addirittura indurre ad arte a farsi avanti e a tentare un approccio) sconosciuti che non si è interessate a conoscere ma solo a ingannare, far sentire nullità e frustrare sessualmente, dilettarsi a suscitare ad arte disio per compiacersi della sua negazione e di come questa, resa massimamente beffarda, umiliante e dolorosa per il corpo e la psiche da una raffinata, intenzionale e premeditata perfidia, possa far patire le pene infernali della negazione a chi è stato dapprima illuso dal paradiso della concessione, attirare e respingere con l'intenzione di infliggere continuamente tensione psicologica, ferimento intimo, senso di nullità , irrisione al disio, umiliazione pubblica e privata, inappagamento fisico e mentale degenerante se ripetuto in ossessione e disagio scivolante da sessuale ad esistenziale (con rischio di non riuscire più a sorridere nel sesso e di avvicinarsi ad una donna senza vedervi motivo di patimento, tirannia e perdita di ogni residuo interesse per la vita), usare insomma sugli l'arma della bellezza in maniera per certi versi ancora più malvagia di quanto certi bruti usino sulle donne quella fisica) non è un diritto, è una vera e impunita forma di violenza sessuale psicologica ai nostri danni.
Se toccare un culo (o un seno) costa anni di carcere e esclamare un complimento qualche mese, allora il fare le stronze, come ormai costume in ogni luogo e tempo, dalla strada alla discoteca, dalla scuola all'età adulta, suscitando ad arte il disio per poi compiacersi della sua negazione, infliggendo, per vanità, capriccio, interesse economico-sentimentale (autostima) o sadico diletto, tensione emotiva, irrisione al disio, umiliazione pubblica e privata, senso di nullità, frustrazione intima, sofferenza fisica e mentale, inappagamento a volte fino all'ossessione e disagio se ripetuto da sessuale ad esistenziale (con rischio di non riuscire più in futuro a sorridere alla vita e al sesso, né di avvicinarsi ad una donna senza vedervi motivo di patimento, tirannia e perdita di ogni residuo interesse per la vita) dovrebbe essere punito con decenni, perchè il danno alla psiche è notevolmente maggiore (e va dalla cosiddetta "anoressia sessuale" al suicidio, da una quasi patologica timidezza al farsi avanti con le ragazze alla completa impossibilità futura a sorridere e volere in tema di corteggiamente in particolare e di "amore" in generale, e quindi anche di "vita" in senso pieno, dal precoce bisogno di prostitute ad un disagio psichico ora celato con l'ironia ed ora pronto ad esplodere in eccessi di aggressività).
Il fatto che gli uomini, per obbligo culturale a mostrarsi forti e cavalieri e per plagio psicologico femminista (che li dipinge come carnefici anche quando sono vittime) in genere non lo ammettano non significa non esista.

Qualcuno dice che dobbiamo piangere invece di combattere? Beh, già tanti uomini, secondo le lamentele delle donne, così fanno. Io dico invece che dobbiamo difenderci da chi ci vuol far piangere. Quindi il tanto vituperato testosterone è ANCHE un’autodifesa naturale dalla tirannia e dalla menzogna di chi usa lagrime, disii e debolezze erotico-sentimentali.


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CAPITOLO III. (SUL FEMMINISMO COME ULTIMA FORMA DI TOTALITARISMO)

Il femminismo è l'ultima e più terribilmente compiuta forma di totalitarismo sopravvissuta al novecento e sfortunatamente (nonché mostruosamente) passata in questo secolo, in quanto, come tutte le ideologie totalitarie, ha la pretesa di cambiare antropologicamente l'uomo in nome di un bene utopico (che è ovviamente distopico per chi la pensa diversamente) futuro (a costo di distruggere materialmente e moralmente quello che l'uomo è nel presente, nonché le vite stesse dei singoli uomini non disposti a conformarsi al sistema sociale imposto o semplicemente d'intralcio per i fini di quest'ultimo). Se non bastasse la denigrazione costante (insegnata fin dai banchi di scuola) del genere maschile basata sull'identificazione dell'uomo come violento-oppressore in sé, dall'alba della storia, per non dire ab aeterno
(con effetti curiosamente comici e contraddittori, se si pensa a come le stesse donne, ormai la quasi totalità del corpo docente, insegnino a scuola ad amare, spesso con una venerazione spinta all'eccesso, le civiltà greche e latine, inconcepibili e incomprensibili nei loro valori fondanti, nei loro miti auto-rappresentativi ed in tutte le loro opere etico-spirituali, senza quella concezione virile – Cicerone farebbe discendere “virtus” proprio da “vir” - propria delle aristocrazie guerriere delle loro origini, che, finita l'ora di storia, di filosofia e di letteratura, viene poi orribilmente banalizzata e denigrata nel termine “mentalità patriarcale”),
se non dovesse bastare la cultura ufficiale nella quale tutto quanto è ritenuto più o meno ragionevolmente maschile è presentato come “brutto”, “sporco”, “cattivo”, “rozzo”, “brutale”, “primitivo” mentre tutto quanto è più o meno sensatamente percepito come femminile è visto quale “bello”, “puro”, “buono”, “pacifico”, “evoluto”, “raffinato”, e pubblicitaria-cinematografica (nella quale, vedi hollywood, l'uomo è rappresentato o come un bruto da punire con pene variabili dal calcio nelle palle alla smitragliata da parte della donnina salta e spara di turno o, vedi gli spot Breil, come un pupazzo da sollevare nell'illusione e da gettare nella delusione con il massimo dell'irrisione e dell'umiliazione pubblica e privata possibili),
basterebbe osservare il comportamento della stampa “mainstream” e della cultura “politically correct” nei confronti dei reati “simbolo” del femminismo per rendersene conto.
Proprio dello stato di diritto è perseguire i delitti , lasciando a filosofi, sociologi e moralisti lo studio del perchè o del per come questi siano in relazione con la natura, la cultura, lo stile di vita e la concezione del mondo dei vari tipi umani.
Proprio dello stato di diritto è punire i reati, non gli impulsi naturali o sociali che potenzialmente potrebbero provocarli. Proprio dello stato di diritto è riconoscere le responsabilità individuali, non basarsi su colpe collettive collocate in un fumoso o perlomeno discutibile passato. Lo stato liberale non ha fra i suoi compiti “reprimere i vizi” e “promuovere la virtù”, ma soltanto reprimere i reati oggettivi e promuovere la legalità, lasciando i cittadini liberi di gestire il proprio rapporto con vizi, virtù, impulsi e forma mentale (con l'unico vincolo di non giungere al delitto).

Perseguire la forma antropologica in sé ritenuta “criminale” in abstracto è invece un'aberrazione vagamente ispirata al senso del peccato originale e alla presunzione di colpa da Inquisizione Spagnola e attuata, nel mondo contemporaneo, dai regimi totalitari.

Uno stato liberale si limita a perseguire l'omicidio, non aspira a costruire un sistema di propaganda e di costrizione culturale volto a condannare “l'egoismo” quale “male profondo dell'uomo che, se non arginato, può portarlo ad uccidere i propri simili”.
Uno stato liberale si propone di perseguire il furto, non si sente in dovere di promulgare leggi e costumi per reprimere “l'avidità” che “, se non repressa in tenera età, può portare l'uomo a derubare gli altri”.
Uno stato liberale si limita a prevenire e punire gli atti di violenza dei cittadini sui cittadini, non arriva a proporre campagne denigratorie nei confronti dell'impulso di aggressività (uno dei cinque fondamentali negli esseri viventi) al punto da vietare la trasmissione di sport competitivi o di censurare opere che esaltino il valore guerriero.
Nei riguardo dell'uxoricidio, invece (significativamente rinominato “femminicidio” proprio per sottolineare, per opposizione di genere, la pretesa la matrice “maschile”), lo stato voluto (e ormai quasi imposto con la pressione mediatica e culturale) dal femminismo non si limita ad esecrare e perseguire i colpevoli, ma pretende di dover considerare come “mandante” dei delitti la “cultura maschile” (così generalizzata da comprendere, evidentemente, la stessa humanitas classica che contemporaneamente si continua, senza cura del principio di non contraddizione, a studiare e venerare e, per continuità, i poeti la cui parola è sbocciata dal disio ) fino a giustificare la “rieducazione” più o meno forzata (qualcuno dei commenti femministi da voi si spinge a parlare apertamente di cure ormonali anti-testosteroniche) di tutti gli uomini non ancora allineati ai dogmi del (nazi)femminismo.
Quanto allo stupro, se uno stato liberale si dovrebbe limitare a perseguire e punire i singoli colpevoli (una volta provata al di là di ogni ragionevole dubbio la loro colpevolezza, si spera), lo stato “femminista” pretende invece di criminalizzare (o perlomeno colpevolizzare) l'intero desiderio naturale dell'uomo per il corpo della donna, al punto da:
  • considerare reato un semplice sguardo (un imbecille con la toga ha fatto anche questo, non nel mondo islamico, dove la cosa avrebbe una parvenza di senso se accostata al simmetrico e parimenti discutibile obbligo di portare il velo, ma qui in Italia dove è invece diritto soggettivo-assoluto-inalienabile “vestirci come ci pare”, ovvero non solo non bardarsi alla mussulmana, ma addirittura diffondere disio negli astanti per puro capriccio, per moda, vanità o persino un certo qual sadico diletto, crea una disparità inaccettabile fra il diritto a mostrare e il dovere di non guardare quanto mostrato, essendo entrambi desideri naturali opposti-complementari);
  •   considerare molestia un mazzo di fiori (la scusa del “non richiesti né graditi” è ipocrita nel momento in cui, da un lato, pur di mantenersi ferocemente aggrappate al privilegio medievale di essere corteggiate, le donne pretendono sia sempre e comunque l'uomo a farsi avanti per primo, con tutti i rischi, i costi e i sacrifici, materiali come psicologici, connessi, e dell'altro, chi accetta, magari controvoglia, di tentare un approccio, non può sapere in anticipo se questo sarà gradito, essendo nella sorpresa e soprattutto nella spontaneità, parte della probabilità di successo, ridotta a zero se si deve chiedere un'autorizzazione preventiva o se ci si deve preventivamente interrogare sulla liceità);

  • considerare non corretto un calendario di bellezze discinte (una istituzionalizzazione dell'invidia per chi è più giovane e più bella riversata sugli uomini, “colpevoli” di desiderare per natura quella stessa bellezza che le donne vengono lasciate libere di perseguire e mostrare, secondo l'opposto-complementare istinto, a volte oltre ogni limite di decenza e ragionevolezza, se si pensa a certi costumi moderni e a certi interventi chirurgici) ;

  • vietare di trasmettere miss italia sulla rai (con la scusa della dignità femminile, quando un tipo di divieto così sarebbe più coerente proprio in quelle culture veramente maschili”, le quali hanno difatti sempre proposto, come ai tempi delle prime olimpiadi, il corpo maschile come simbolo di bellezza, vigore e tensione verso il divino, non già quello femminile, avente come portato la sopravvalutazione estetico-filosofica della donna propria tanto della stupidità cavalleresca medievale dell'amor cortese quanto della contemporanea età italiana in cui le ragazze in quanto tali entrano gratis ovunque – e sono complimentate e corteggiate - dove invece i coetanei maschi pagano – e sono spesso irrisi e umiliati -, in cui chiunque sia anche solo lontanamente somigli a qualcosa in grado di suscitare un minimo palpito di desiderio ha attorno a sé una corte dei miracoli di spasimanti, cavalier serventi, ammiratori e mendicanti sentimentali per non dire zerbini, in cui anche quelle di bellezza non alta possono tenere un comportamento altezzoso come fossero miss mondo data la disparità di numeri, bisogni e desideri fra i sessi ecc.);
  •  considerare violenza una mano sul culo (non dico che tali gesti di mano e di villano debbano essere consentiti, ma noto la sproporzione fra l'enfasi mediatica e le pene comminate in tali casi, spesso nemmeno dimostrati se non dal “libero e motivato convincimento del giudice” basato sulla sola parola della donna, da un lato, e l'assenza di una qualsiasi figura di reato prevista contro chi, senza bisogno delle mani, ma in maniera molto più profonda, usando tanto le armi del corpo quanto quelle della psiche, “tocca” la diversa e non già inesistente sensibilità maschile “facendo la stronza” e provocando ferimenti intimi, sofferenze corporali e mentali, umiliazioni pubbliche e privati e disagi da sessuali ad esistenziali conducenti all'incapacità futura di approcciarsi all'altro sesso e se prolungati o ripetuti, ad anoressia sessuale e suicidio);
  •  voler vietare la prostituzione (anche fra adulti consenzienti, anche senza alcuno sfruttamento) chiamandola “stupro” (o forma di violenza) mediato dal denaro, quando è proprio l'emblema di quella disparità di potere nel “mondo come volontà” (che è dietro il velo di Maya ed è quanto davvero rileva per la felicità e la libertà individuali) per natura a favore della donna e rispetto al quale tutte le altre forme di potere (appartenenti al mondo come rappresentazione, generate in passato dall'uomo e su cui le femministe reclamano pari diritti) potrebbero apparire meri e parziali tentativi di compensazione: proprio perchè allo stato di natura la posizione di forza è quella della donna, l'uomo ha bisogno di pagare per soddisfare i propri naturali desideri di bellezza e piacere dei sensi. Se davvero l'uomo fosse la parte forte non avrebbe bisogno di pagare, ma otterrebbe qualunque favore femminile come corvè medievale (esattamente come, al di fuori della prostituzione, le donne infatti ricevono qualunque favore maschile senza dover dare in cambio nulla, solo in quanto “donne”, ovvero signore in senso medievale cui si deve di tutto senza garanzie né diritti). Mai mai paga chi tiene il coltello dalla parte del manico (sono semmai i vinti a dover pagare tributi per non subire angherie). La criminalizzazione della prostituzione ha difatti proprio l'obiettivo di impedire all'uomo di compensare con denaro (ovvero con il lavoro e il merito altrove) le disparità naturali di desideri a favore della donna, per permettere a questa di essere sempre circondata di schiavi amorosi o aspiranti tali , da cui trarre ogni profitto economico, sentimentale e psichico, su cui permettersi di tutto, o grazie al cui forzato interesse sentirsi eternamente belle e giovani (le veramente belle e realmente giovani diverrebbero irraggiungibile per l'uomo comune, data la sproporzione, tanto in numeri quanto in intensità di bisogno, fra fanciulle disiate e uomini disianti e l'impossibilità di ricorrere a sacerdotesse a pagamento): la potenziale tirannia di una moglie, di un'amante o di una fidanzata sarebbe a quel punto totale e senza scampo, molto più penetrante di qualunque forma di totalitarismo conosciuta la quale ha sempre e comunque avuto il limite di poter agire sulla sfera politica e difficilmente su quella erotico-sentimentale. A riprova di tale volontà vi è la disposizione, da parte dei fautori della criminalizzazione dei clienti, a sovvertire l'ordine normale di ogni legge e di ogni morale, per il quale, una volta stabilita l'illiceità di un commercio (ad esempio la droga), è, fra i due, più colpevole chi sfrutta il bisogno, il vizio o il desiderio altrui vendendo, rispetto a chi compra. Mentre lo spacciatore non potrà mai difendersi dicendo che vende droga solo perchè non ha trovato un lavoro migliore, la prostituta nelle medesime condizioni di bisogno è considerata tanto priva di volontà da rendere colpevole il cliente che se ne avvale. Si tratta evidentemente di una distorsione motivata da ben altre ragioni dalla semplice constatazione che la droga uccide ed il sesso no. Qui si sta valutando il libero arbitrio di chi vende, non si sta paragonando l'oggetto del “turpe commercio”. Che poi il commercio di piacere sensuale sia davvero turpe è un fatto assai discutibile, e dipendente dalla soggettiva interpretazione morale dei singoli individui che non dovrebbe riguardare lo stato liberale. Probabilmente soltanto chi crede ancora alla favola paolina del corpo vaso dello spirito santo il cui uso spregiudicato è assai più peccaminoso di qualunque altra violazione può valutare davvero in questo modo. In un mondo in cui nella sfera sessuale si è giunti praticamente alla pornografia sistematica spacciata come emancipazione e diritto sessantottini (lo stesso stato svedese che vieta la prostituzione finanzia spettacoli lesbici) e in quella lavorativa il mettere il proprio cervello e il proprio studio (ovvero quanto di più caro e di più nobile ogni giovane dovrebbe avere pensando ad un sensato ordine di valori e a quanto è costato coltivarli) in vendita al miglior offerente del turbinio capitalista è divenuto il dogma dominante, l'argomento della dignità del corpo sessuato e dell'immoralità della vendita di un servizio sessuale è davvero difficile da ritenersi credibile (se non appunto, tenendo presente il crudo interesse femminista).
  • Oltre a farsi beffe della presunzione di innocenza usando schemi legislativi di tipo fascista (presunta parte lesa sentita come testimone contro accusato che, non avendo l'obbligo di dire la verità, non ha però lo stesso peso quando depone e non può dunque di fatto difendersi in mancanza di prove oggettive: tipico schema da regime con l'interesse a far prevalere l'accusa sulla difesa) per poter mandare in galera qualunque uomo sulla sola parola di qualunque donna, anche prima e anche senza riscontri oggettivi e testimonianze terze della presunta “violenza”.

Uno stato liberale avrebbe poi definito un reato come stalking facendo riferimento a quanto oggettivamente limita la libertà e genera timore, non avrebbe accettato una definizione così ampia e vaporosa da contenere potenzialmente tutto quanto è non solo possibile, ma sovente necessario (perchè preteso dalle interessate)  nel corteggiamento.
Chiunque non abbia fatto all'amore soltanto col telescopio, per dirla alla Leopardi, sa benissimo come proprio dalla disponibilità a resistere, insistere e ritentare
(esattamente come si dovrebbe fare nell'arte bellica, cui con acuta intelligenza Ovidio accostava l'ars amandi)
molte donne testino il reale interesse del loro “pretendente” e usino
come altrettante prove che l'uomo è costretto a superare con arguzia, sacrificio e abnegazione proprio i loro stessi rifiuti, i loro stessi più o meno simulati gesti di disinteresse, le loro stesse fughe,
poiché proprio grazie a ciò possono nel frattempo
valutare le doti da loro potenzialmente apprezzabili per un eventuale rapporto. Chi si arrende ai primi dinieghi sa in anticipo che finirà a confidare i propri teneri sensi con le stelle dell'orsa. Ci si aspetterebbe dunque che un legislatore serio o perlomeno umano prevedesse, piuttosto, un'attenuante nel caos in cui un uomo, nell'esercizio del proprio ingrato compito di corteggiatore, incorresse in un comportamento al limite del penalmente rilevante, non già che, come voluto oggi dalla legge femminista, anche atti che nulla avrebbero di rilevanza penale (fiori, cioccolatini, telefonate), possano diventare reati solo perchè colei che a posteriori non vuole più quello che prima forse pensava di volere dice di sentirsi “turbata”.
La stampa, difatti, riporta solo i casi in cui il persecutore è davvero tale e arriva ad uccidere la vittima (casi per i quali lo stalking è stato evidentemente inutile e l'applicazione seria di leggi ordinarie sarebbe stata necessaria e sufficiente) tacendo quelli in cui si tratta di mariti denunciati solo per trattare da posizione di forza una causa di divorzio, di fidanzati che tentano di riallacciare un rapporto (se così non si comportassero con le loro amate sarebbero poi accusati dalle stesse di “averle lasciate andare”), di “inesperti amanti” che hanno interpretato un no per un sì (ma se fossero incorsi nell'errore contrario sarebbero stati tacciati di pusillanimità), quando non addirittura di persone che nulla hanno fatto e sono semplicemente vittime di un tentativo di vendetta, ricatto o estorsione per via giudiziaria.
La cultura femminista va oltre. Non solo esagera ad arte fatti e numeri per creare emergenze inesistenti, sed etiam pretende di bollare come “criminale” tout court la forma maschile del sentimento amoroso (esiste persino una trasmissione dal titolo “amore criminale” dove l'aggettivo è ovviamente volto non solo grammaticalmente al maschile). Addirittura in rete trovate donne e femministi che chiamano “Inno degli stalker” canzoni d'amore disperato (nel senso pienamente contrastato dell'odi et amo Catulliano, quale solo un petto di poeta può sentire) come “Bella stronza” e l'intera poesia italiana dai primi siciliani inventori del sonetto agli ultimi cantori post-Dannunziani dell'eterno femminino viene descritta come “sintomo dell'incapacità maschile di amare che si rifugia nell'idealizzazione” (non sanno che è impossibile invaghirsi davvero di qualcosa senza prima sognarlo e quindi necessariamente idealizzarlo, specie per il giovane uomo, avente come primo contatto con l'oggetto del proprio amore proprio il senso di bisogno-mancanza-irraggiungibilità, figlio del “tirarsela” del gentilsesso).

A voler esagerare, poiché tutti i reati sono conseguenza della natura umana, si dovrebbe ritenere “cosa buona e giusta” sradicare quest'ultima e trasformare i cittadini in robot o in rieducati da “metodo lodovico” di “Arancia meccanica” (abolendo il libero arbitrio). Poichè, fortunatamente, nemmeno nel più buio medioevo si è pensato questo e nessuno se non qualche pazzo ha mai voluto distruggere l'uomo
solo perchè la sua natura è fallace, non si capisce perchè proprio per la specifica natura maschile si dovrebbe giustificare uno “sradicamento” o una “rieducazione” come quanto voluto dalla Boldrini e dall'Espresso. O, meglio, lo si capisce conoscendo la natura femminista della boldrini e quella totalitaria della stampa al di lei seguito.

Insomma, lo stato voluto dal femminismo agisce oggi come uno stato antisemita, il quale, anziché limitarsi a combattere seriamente l'usura e la tirannia delle banche, usasse i singoli episodi di strozzinaggio per promuovere la maledizione degli ebrei in quanto tali e la loro forzata “conversione” (solo perchè diversi, fra essi, sono feroci speculatori finanziari, esattamente così come diversi, fra gli uomini, sono uxoricidi, stalkers, stupratori e molestatori).

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CAPITOLO IV. (SUI SISTEMI DI VALORI FEMMINILI E MASCHILI)

Se pensate che la sezione precedente sia stata troppo formale e trascuri il discorso valoriale, vi contento subito. Non inizio volentieri discorsi “valoriali”, poiché uno dei motivi per cui ho sempre apprezzato il mondo sedicente libero è la possibilità di coesistenza (grazie ad accordi formali) fra persone con valori teoricamente opposti. Poiché ormai la coesistenza fra me e certe donne è fortemente compromessa dall’ultimo femminismo che utilizza a mani basse mitologie matriarcali, e poiché qualunque discorso puramente razionale sarebbe impotente contro un discorso basato sulla persuasione del mito, oppongo alle mie nemiche un mito dimostratosi in grado non solo di sconfiggere il loro, ma pure di superarlo in capacità di generare “verso l’alto” dello spirito e “verso l’oltre” della storia.

Che i valori classicamente attribuiti dalle femministe all’uomo (“autoritarismo”, “violenza”, “sopraffazione”) siano davvero negativi è qualcosa di sostenibile soltanto a valle della sovversione dei valori operata duemila anni fa dal Cristianesimo nella morale e portata a compimento in politica negli ultimi secoli ad opera del fronte “egalitario” e sedicente “progressista”. Come nota il Nietzsche anticristiano, infatti, essi potrebbero essere più realisticamente visti, alla chiara luce di una vita ascendente, come i valori del grande sì alla vita (signoria aristocratica che, imponendosi sulla massa umana indistinta ed informe della preistoria, segna il vero passaggio alla storia e insegna al mondo nuove bellezze e significati, stabilendo per l’umano una forma con la forza di un martello e il tocco di un artista, amore per la lotta da cui nascono l’affermazione e la grandezza,
“etica guerriera” che funge da fondamento etico-spirituale di intere epoche quale noi possiamo ancora leggere in Omero e in Virgilio).

“Autoritarismo” è il nome che chi vorrebbe tiranneggiare con le blanditie della seduzione, le perfidie della parola, gli inganni delle speranze, dei sentimenti e dei desideri erotici (donne) o le minacce dell’aldilà e i sensi di colpa (preti) dà alla vera autorità fondata su lealtà, coraggio ed etica guerriera.

“Violenza” è l’insulto che il debole fa del forte il quale possieda la “vis-roboris” (forza in Latino, associata a qualcosa di radicato come la quercia, e quindi anche possibile fondamento di civiltà).

“Sopraffazione” è il termine inventato da chi in un leale scontro di forze soccombe per delegittimare la vittoria dell’avversario.

A dimostrare questo non sono solo le parole del professore di Basilea, né tantomeno le mie che pesano ancor meno, ma quelle dell’Iliade, dell’Eneide, dei Poemi Persiani, dell’Edda, del Beowulf, (nelle quali non c’è traccia di questi tre termini femministi e comunque non del loro senso negativo, mentre molti segni sono posti su quali debbano essere i corretti giudizi di valore), di ogni opera in cui insomma le grandi stirpi indoeuropee fondatrici di città e civiltà hanno scelto di porre la propria auto-rappresentazione e secondo le quali hanno deciso di darsi una forma e di pro-gettarsi nell’agone della storia.

Quando eravamo scimmie eravamo pure tutti uguali e dati a priori universalmente (tutte le comunità di una data specie scimmiesca vivono allo stesso modo), ma da quando siamo uomini storici ogni stirpe ha scelto un proprio modo di essere (come se alla specie umana fosse l’unica con il dono di poter mutuare da questo o quell’animale quasta o quella virtù), la propria visione del mondo, la propria corrispondente etica, il proprio specifico tipo umano.

Dalla Grecia Omerica alla Roma Repubblicana, dall’India dei Veda alla Persia Iranica, dai mitologici Vichinghi alla Germania Sacra e Imperiale, tutti i popoli indoeuropei hanno avuto in comune la concezione di un uomo che si eleva nel disprezzare quanto di più facile, pacifico, comodo, sicuro, conservativo la vita offra e nel ricercare (tanto nell’esperienza bellica quanto in quella spirituale) quanto di più difficile, duro, faticoso, pericoloso e mortale esista (come appunto le imprese di cui leggiamo nell’epica) e di un bene comune inscindibile dal compimento temerario (sia un Prometeo che ruba il fuoco agli Dei, sia un Enea che con la volontà degli Dei ricalca le orme di Odisseo ed Achille assieme) di opere tali, per grandezza, potenza e durata, da costituire il mito fondativo di intere epoche.

Ogni ideologia egalitaria (prima fra tutte il cristianesimo, madre di tutte le altre) ha contrapposto a questi miti fondativi e “differenzianti” quello “universalistico” del peccato originale (secondo il quale la storia sarebbe “caduta” rispetto ad una condizione di “bene” coincidente con la sottomissione al dio unico rispetto a cui tutti sono ugualmente polvere). L’elevarsi al cielo per forze proprie è divenuto “superbia”, lo stabilire differenze, gerarchie, specificità di forme e ruoli nell’umano è ora “peccato” (contro dio per cui siamo tutti figli e servi), il generare in grandezza, potenza e durata è divenuto “idolatria” (perché Dio non ammette città ed eroi ma soltanto, masse indistinte di fedeli e, forse, qualche santo). L’odio dell’impotenza (o, la morale degli schiavi, o, come dico io, l’invidia) è dunque alla base della condanna cristiana (ma, a ben guardare, anche comunista) della storia in quanto tale (dominio dell’uomo sull’uomo o, come direbbero le femministe, sulla donna).

Per questo sono propriamente giacobinismo, socialismo, femminismo ad essere “antistorici” (nel senso che vogliono dannare e condannare questa proprietà “differenziante” propria della storia).

Per Greci e Romani antichi, la vera vita non è vista nell’esistenza meramente corporale e conservativa data dalla madre, ma in quella spirituale e ascendente data dal padre (non a caso il Dio Apollo dice: “il padre è il vero genitore”), cui si accede per prova iniziatica e di cui ci si deve mostrare continuamente degni tanto in pace con la “pietas” quanto in guerra con la “fortitudo”. La fonte di ogni valore e quindi di ogni diritto è posta non in quanto accumuna gli uomini nel bassamente umano dell’esser nati nella stessa specie, bensì in quanto distingue gli uomini fra loro e li eleva al più che umano dell’affrontare ogni colpa ed ogni dolore pur di compiere quell’opera di grandezza necessaria a divenire ciò che si è (per questo ogni città ha il proprio mito di fondazione in cui c’è sempre qualcosa che la successiva morale cristiana, fondata sulla credenza di un’umanità già data a propri da un dio fuori dal mondo con pretese universali, chiamerebbe “crimine”).

Non è un caso, forse, che siano state proprio le società basate sul sesso per cui vita e vittoria coincidono (fino dallo stadio di spermatozoo), sul sesso che ama il pathos della distanza e l’etica della differenza (adesso si direbbe “discriminazione”) a segnare un salto di livello quantico nell’umano del neolitico, mentre le mitologiche società matriarcali tanto amate da anarchici, socialisti e femministe sono state capaci, nel loro egalitarismo fondato sul ventre materno (per non dire di peggio sulla immaginabile tirannide femminea) soltanto di rimanere al tutto indifferenziato e informe dell’umano mesolitico, dal quale nulla poteva sorgere di valore, significato e bellezza proprio perché tutto era ed è destinato, nella prospettiva “tellurica” della vita materna, a ritornare alla terra stessa dopo un’esistenza effimera.

A distinguere forme umane e ad elevarsi al cielo sono state le civiltà che cremavano i defunti e veneravano gli eroi.

Cosa può contrappormi il femminismo alla Grecia e a Roma? Le società matriarcali con le statuette tettone di terracotta? Società che sono andate in pezzi appunto come vasi di terracotta appena a contatto con quelle che io ammiro? Facile e fallace la critica femminil-femminista del “erano società migliori e più felici ma sono state sopraffatte dai muscoli”. Solo una femminista con l’utero al posto del cervello può pensare che gli scontri di civiltà siano scontri di pure forza fisica. Come mostra il più drammatico e decisivo fra questo tipo di scontri (quello fra la terrestre Roma e la marittima Cartagine), a decidere le sorti sono sempre la forza  la coesione degli Stati (Roma vinse perché lo stato romano, fondato sull’etica virile e guerriera del contadino italico, era più solido della plutocrazia oligarchica cartaginese fondata sui profitti mercantili e sui soldati mercenari). Risulta dunque difficile pensare che le comunità matriarcali pelagiche e pre-doriche e pre-romane (io direi anche un po’ pre-umane) possano essere state una valida alternativa storica al mondo patriarcale indoeuropeo. A maggior forza, non possono ora, con i loro miti tellurici, suscitare, in me e negli altri uomini rimasti in piedi fra queste rovine d’occidente europeo, una forza di carattere comunitario e anagogico quale invece potrebbero ancora i miti di quei popoli capaci di costruire nell’arte come nella religione, nella politica come nella storia, nel pensiero come nella società, mirabili struttura destinata e misurare i millenni e a non essere raggiunte dai contemporanei né superate dai posteri.

Due ultimi concetti devono essere precisati prima di concludere questo capitolo con il rischio di (voluti da parte vostra) fraintendimenti. A chiunque sia venuto in mente di accusarmi di “fascismo” solo perché la retorica del ventennio ha utilizzato (almeno nei suoi momenti meno ridicoli) mitologie (esteriormente) simili, puntualizzo che non solo tale accusa inverte l’ordine normale delle cose (prima vi è la visione del mondo sentita per vera e poi la scelta della parte politica più affine: chi scelga la prima sulla base della seconda è solo un animale gregge), ma è pure superficiale, in quanto prende sul serio quanto nel fascismo era appunto vuota retorica. Se duce e camerati fossero stati davvero gli eredi di Lucio Emilio Paolo e di Scipione l’Africano, allora non ci sarebbero stati nemmeno l’armiamoci e partite ed i disastri militari d’oltremare. E ci sarebbero stati anche meno discorsi retorici, dato che prerogativa del guerriero classico era parlare poco e combattere molto. Nessuna considerazione negativa sul fascismo storico può però impedire a me o a qualunque altro uomo di condividere una visione del mondo virile, guerriera e aristocratica preesistente da millenni al fascismo e destinata ad innalzarsi all’eterno in quanto fondamento etico-spirituale del punto più alto mai raggiunto da una civiltà, non solo in termini di arte, religione, scienza, etica, diritto, cultura (se rapportato tutto ai tempi), ma soprattutto (e questo senza alcun bisogno di relativizzazione storicistica) in termini di tipo antropologico.

Il femminismo vorrebbe un uomo nuovo addomesticato (un barboncino?), io invece sostengo che, se c’è mai stato un tipo umano veramente degno del nome di superuomo, nella storia, è stato proprio il tipo umano partorito dalla Lupa Capitolina.

L’altra prevedibile obiezione è quella secondo la quale parlerei al passato, contro lo “spirito dei tempi” ed il preteso “senso della storia”. Innanzitutto, se vogliamo giocare a questo gioco, il mio richiamo mitologico è comunque storicamente successivo tanto a quello delle femministe (matriarcato basato sulla presunta “empatia”) quanto a quello dei socialisti e anarchici (preistoria senza rapporto oppressori o addirittura senza stato), l’uno e l’altro essendo figli della nostalgia per l’egalitarismo mesolitico da parte di chi, all’alba della storia neolitica, ha potuto provare solo invidia verso i fondatori di città e civiltà.
In secondo luogo, il gioco del “più nuovo/più vecchio” è sbagliato in sé, in quanto il discorso mitico non è una relazione scientifica nella quale si possa parlare di corretto/sbagliato, di superato/evoluto: il mito è, per sua natura un discorso pre-razionale che non può essere dimostrato ma solo mostrato per vero a chi ha (per nascita o esperienza) occhi addestrati a vederlo e da cui poi, semmai, possono essere dedotte in maniera logica e razionale le diverse morali e le diverse verità proprie ai diversi specifici tipi umani che sentono come proprio questo o quel mito. Senza prima avere un mito non vi potrebbe essere alcun discorso valoriale, giacchè “come debba andare il mondo”, “come sia giusto vivere”, “come ci si senta compiuti” non sono problemi decidibili e quindi escono dall’ambito della matematica e della fisica.
Non esistono valori e idee senza miti, e le ideologie che si propongono come “oggettive”, “fuori dal mito”, “solo nella realtà” sono semplicemente le convinzioni più subdole, più mentitrici, più costrittive (come il positivismo, il quale illudeva e si illudeva di ricondurre il mondo ad un problema decidibile o il marxismo, che pensava poter trattare scientificamente qualcosa di non ripetibile come la storia, o, oggi, l’egalitarismo come sentire, che non si accorge di essere solo un cristianesimo secolarizzato: i primi due, vedendo la ragione non più come mezzo per far discendere certe conclusioni da certe premesse, ma come struttura stessa del reale, hanno portato a delle utopie distrutte  e distruttrici, l’ultimo ci sta impedendo di opporci alla decadenza politica, militare, economica, demografica, etnica, materiale e ideale di noi popoli Europei avviati all’estinzione o alla dissoluzione nel tutto indifferenziato del mondialismo).
E poi chi ha detto che la storia abbia un senso unico? Hegel dalla sua cattedra? Troppo accademico e troppo imbecille per capire che il senso della storia altro non è che la direzione ad essa impressa dagli imprevedibili esiti degli scontri fra forze umane.
Se “i tempi” sono i sistemi di valore e i modi di vita voluti e imposti da nature con me inconciliabili, da umanità a me nemiche, allora io li combatto. Non chino certo il capo obbediente. A posteriori, tutto può essere giustificato con la frase “era storicamente inevitabile”. A priori, non solo “il senso” può essere previsto, ma non è neppure determinato (per fortuna altrimenti non varrebbe nemmeno la pena sopravvivere per vedere come va a finire). L’elezione di Trump è stata (pare) bell’esempio di svolta non prevista dai moderni sostenitori (femministi) dello spirito dei tempi. Quasi come lo furono le due torri per i sostenitori della “fine della storia”. A prescindere da come finirà la partita in quella cloaca di femminismo e di menzogne egalitarie che sono gli USA (al di là delle battute del grasso presidente), non è tempo di rinunciare alla pugna perché “è destino che il mondo diventi femminista”. Il tempo della storia è una sfera nella quale in ogni momento si può decidere la direzione e in cui il passato può essere meta e modello per il futuro. Solo chi non vuole combattere pensa che lo scontro sia già deciso da un imperscrutabile teleologia “scientista” (ma se anche fosse, pure la lezione omerica – Achille ed il suo Fato - ci direbbe di combattere comunque, se non per la gloria immortale, almeno per dare testimonianza che una vita veramente virile e non soltanto banalmente maschile sia possibile oggi, come ieri e come sempre).

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CAPITOLO V. (SULLA QUESTIONE DELL’EUDEMONIA, INCONCILIABILE CON IL FEMMINISMO)

Qual’è ora la critica? Sono insensibile alla sofferenza che la mia grande storia impone?
Trascuro l’eudemonia? La felicità di donne e uomini? E vabbè, lascerò gli spazi aperti dell’iperuranio per tornare sulla terra dove gli esseri umani “di tutti i giorni” vivono e soffrono.
Sforzandomi di essere un po’ empatico, noto che comunque mai, nella storia antica, è stato negato alla donna di poter vivere da femmina fra altre femmine secondo valori femminei. Mai gli uomini hanno costretto le donne a combattere, uccidere, compiere imprese. Semmai costringevano gli uomini liberi ad essere degni della loro libertà mostrandosi valorosi in guerra. Solo oggi si pretende che l’uomo viva da donna in un ambiente effemminato e secondo valori femminei. Anzi, si vorrebbe pure non fosse più uomo (rieducazione). Addirittura non fosse più (pulizia di genere sognata da qualche ultrafemminista scandinava). Scusate, ma a questo punto mi concentro sulla questione della felicità degli uomini.

Non è la società ad essere sessista: la natura lo è. La società, se amante di quanto possiamo chiamare "equo vivere", può semplicemente tentare di compensare le disparità naturali, o, meglio, dare agli individui la libertà di compensarle.
E' quello che ha sempre fatto il mondo umano prima dell'avvento del femminismo.
Oggi come ieri la donna ha sempre privilegio di natura d'essere apprezzata, ammirata e desiderata in sé per la bellezza (e, quando non vi è, comunque per l'illusione data dal desiderio). Per naturale compensazione l’uomo ha sempre potuto proporre altre doti per essere simmetricamente apprezzato, a seconda del mondo. Il mondo eroico ed omerico aveva la virtù guerriera, il mondo cavalleresco e cristiano la cultura, il pensiero, le belle arti, la conoscenza, il cor gentile, il mondo capitalista ha il denaro. Forse un futuro (utopico) proporrà finalmente il puro spirito. Il mondo attuale, intanto, con tutti i suoi difetti, ha il denaro. Avrà tutti i difetti ma almeno permette all'uomo di compensare la disparità di desideri (non necessariamente sessuali) e inclinazioni sentimentali con la donna. Non è assurdo. E' invece assurdo un mondo che programmaticamente voglia eliminare le differenze.
E' ipocrita poi un mondo che chiama svantaggio il privilegio e chiama discriminazione una scelta (dettata da diversi desideri di natura).
Se vige la morale pseudo-cavalleresca, per cui sia per cultura sia per legge è sancito che l'uomo debba mantenere la donna (se questa non ha voglia di lavorare o di cercare un lavoro in grado di farle guadagnare quanto desidera), se anche per un semplice rapporto "free" l'uomo deve dare infinite cose in pensieri, parole, opere, fatiche, dignità (quando deve recitare da cavalier servente) e soprattutto doni e regali e inviti a cena, se una donna può ottenere (economicamente e sentimentalmente, oppure in moneta di vanagloria e autostima) tutto senza dare nulla più che un sorriso, se viene accettata, disiata o comunque socialmente apprezzata in ogni dove di per sè, in quanto "soave fanciulla", per la sua grazia, la sua leggiadria ed ogni altra dote attribuitale per natura e cultura (addirittura anche quando, come accade spesso, manca la vera bellezza) perché mai una donna dovrebbe faticare per arrivare a guadagnare tassativamente una certa cifra (come ha l'obbligo l'uomo per non essere un nulla) o raggiungere una certa posizione di prestigio socio-economico (quella indispensabile invece all'uomo per essere ammirato e potersi circondare delle donne che desidera) dato che già per natura piovono su di lei privilegi principeschi (in relazione all'uomo), complimenti, desiderabilità e ammirazione, o comunque accettazione, sociale e per natura le viene dato tutto?
Sarebbe molto stupida se non ne approfittasse, facendosi per quanto possibile mantenere o, se ama il lavoro, scegliendo una professione per puro gusto e non per soldi (ed è per questo e solo per questo che le donne svolgono mestieri meno remunerati ma non per questo meno appaganti in sé).
Se deve sempre essere l'uomo a "spendere" (sia materialmente, sia idealmente) per la sola speranza di conquista, deve esistere per lui ALMENO LA POSSIBILITA' di guadagnare di più, altrimenti dove trarrebbe le risorse per la "rincorsa"? O per voi è naturale che l'uomo viva perennemente infelice e inappagato?
La donna, per privilegio sia di natura sia di galanteria, ha la possibilità, nella sfera dell'AUTOSTIMA (erotica ed affettiva), di essere ammirata, disiata ed apprezzata al primo sguardo e, in quella del POTERE (personale e sociale) di influenzare l'agire e il pensare degli uomini (e quindi la storia), SENZA BISOGNO di faticare, compiere "imprese" o mostrare eccellenza in doti particolari (come i cavalieri che se non le dimostrano non sono né disiati né ammirati) o di raggiungere una posizione di preminenza sociale ed economica (come invece gli uomini che senza di essa non contano nulla).
E tutto questo vale per natura, poiché è il maschio ad essere indotto dalla natura ad onta di perigli e fatiche a seguire la femmina nel più fitto dei boschi e chissà dove, non viceversa.
Tale disparità DEVE essere compensata in un modo o nell'altro dall'ordine sociale. Il denaro è un mezzo (o il mezzo attuale).
Se le persone sono lasciate libere tale "riequilibrio" avviene senza discriminazioni, non per effetto di divieti o svantaggi alle donne, ma per conseguenza di libere scelte diverse dettate da bisogni diversi, inclinazioni diverse e doti naturali differenti. E' se si pretende di eliminare a posteriori tale riequilibrio che si compie azione ingiuste e discriminatoria in quanto un'uguaglianza imposta penalizzerebbe gli uomini DATO CHE il non avere il femminista 50 e 50 non deriva da discriminazione contro le donne ma dal fatto che esse (per privilegio naturale e culturale) hanno meno bisogno di certe posizioni e di certe carriere (per essere felici o anche solo socialmente accettate e amorosamente disiate) e quindi non vi spendono tanto tempo ed energia come sono invece obbligati a fare gli uomini: conseguentemente correggere a posteriori per avere il politicamente corretto 50 e 50 sarebbe come, per il puro gusto di "pareggiare", rallentare a metà di una competizione chi ha corso e faticato di più perché aveva più necessità di arrivare prima.
Se davvero si realizzassero i propositi del ministero delle pari opportunità la situazione sarebbe totalmente a svantaggio dell'uomo, e non certo pari o giusta.
Il desiderio è dispari.
La donna gode di un privilegio nella sfera, diciamo, erotico-sentimentale, che le deriva direttamente dalla natura. Tale posizione di privilegio (o, se vogliamo, di preminenza) diffonde i propri effetti, direttamente o indirettamente (e in maniera assolutamente indipendente dall'organizzazione sociale, la quale non può, anche volendo, vincere la natura in questo), in ogni aspetto della vita dato che, come mostra Freud, tutto ciò che desideriamo o vogliamo, consciamente o meno, deriva dal profondo degli impulsi sessuali. Di ciò non si può non tenere conto parlando di "parità", sempre che si abbia come fine una parità effettuale o, meglio, una uguale possibilità di ogni individuo di cercare la via per essere felice, o meno infelice possibile, secondo i propri personalissimi ed ingiudicabili parametri. In caso contrario significa o che si è troppo stupidi per capire la sostanza del problema oltrepassando l'apparenza o troppo perfide e false per ammettere di avere un vantaggio (molto più influente della superiore forza fisica maschile) il quale DEVE essere compensato da una società che voglia essere non dico giusta, ma almeno FUNZIONANTE (solo quanto è bilanciato, come lo è stato il mondo della tradizione, può funzionare a lungo). La terza via significa semplicemente ritenere accettabile la crudeltà della natura solo perché in questo caso va (o sembra andare) a vantaggio della donna, sottendere che l'uomo debba sempre essere tiranneggiato o reso profondamente degno del riso da questa e definire arbitrariamente la disparità naturale come "giustizia naturale" (ragionamento tipico delle ecofemministe: e sarebbe interessante la loro reazione a chi sostenesse giusto per l'uomo approfittare della brutalità fisica e delle forze naturali di coesione , ossia del branco, per schiavizzare le donne, perché è il discorso simmetrico a questo quello sostenuto da certe ecofemministe e da certe donne).
Rousseau credeva ingenuamente tale influenza delle donne (esercitata per mezzo di ciò che nell'uomo è di più profondo e di più irrazionale) un fatto positivo in quanto naturale, ma Leopardi e Schopenhauer hanno ampiamente dimostrato come alla natura poco importi dell'infelicità o della felicità dei singoli individui.
La felicità è un concetto speculativo e infinitamente soggettivo nelle sue possibilità (o, per i pessimisti, illusorio nella sua impossibilità), e non è raggiunto con il puro soddisfacimento del corpo, ma è oggettivamente riscontrabile che laddove non possono essere pienamente appagati i bisogni naturali (fra cui, per l'uomo, quelli di bellezza e di piacere, dei sensi come delle idee), l'essere vivente dotato di autocoscienza è inevitabilmente infelice.
Per questo è disumano non voler concedere all'uomo di poter compensare la situazione svantaggiata di partenza o lamentarsi delle conseguenze macroscopiche di ciò (vedi statistiche sui redditi), ovvero di come a volte l'uomo (non tutti sono imbecilli come sembra) vi riesca con le proprie forze (lavorando e guadagnando di più, sacrificandosi di più nella carriera perché non ha altra scelta).
Se una donna può avere la bellezza per essere apprezzata, ammirata, disiata al primo sguardo, un uomo deve poter acquisire altre doti parimenti oggettive e immediatamente apprezzabili per essere allo stesso modo ammirato e disiato e "pareggiare il rapporto" con la bella donna.
Se ella possiede la bellezza, di cui, sensitivamente e intellettivamente, l'uomo ha naturale ed intimo bisogno e verso cui è mosso da profondo e immortale disio, egli deve possedere e poter offrire a lei altre doti di cui la donna ha pari bisogno e brama e verso le quali è mossa a desiderio con ugual forza.
Ogni rapporto umano, fra uomo e uomo o fra uomo e donna, è fatto di dare ed avere (non necessariamente e banalmente in senso economico, ovviamente). Solo gli stolti possono credere il contrario e confidare nella gratuità (la quale non esiste neppure nel sentimento).
I rapporti fra uomo e donna nel regno dei cieli non mi interessano. Io parlo di quanto accade sulla terra. E' raro si incontrino San Francesco e Santa Chiara e poiché l'uomo deve poter godere realmente, di quando in quando, delle bellezze che abitano la terra, deve anche possedere quelle doti in grado di allettare e realisticamente disporre a concedersi le donne vere prima delle sante.
Se non possiede tali doti non ha nulla di concreto da offrire alla donna e da lei disiato e gradito, per cui non potrà sorgere alcun rapporto costruttivo con lei. E l'uomo con ogni probabilità sarà infelice e inappagato sia sensitivamente sia intellettivamente, oltre che mai apprezzato, con conseguenze sia distruttive sia autodistruttive.
Possibile che donne laureate e intelligenti non capiscano queste semplici verità?
Sono gli spermatozoi che devono correre all'ovulo, non viceversa. Non possono essere "rallentati" per "parità". E sono gli animali maschi che devono lottare, inseguire e raggiungere e conquistare l'animale femmina che sta ferma e non ha obblighi. E per correre, inseguire, competere, serve la benzina, la forza, la fiducia. E la benzina, la forza, la fiducia, in un mondo capitalista, risiedono nelle possibilità economiche. Stupido negarlo. E negare dunque che la situazione attuale non sia frutto di una discriminazione, ma del tentativo disperato degli uomini di compensare il naturale privilegio delle donne significa essere ciniche e bare. Oltre che FALSE!

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CAPITOLO VI. (“EMPATICHE E SENSIBILI”? FORSE VERSO CAGNOLINI E GATTINI. NON CERTO VERSO L’INESPERTO AMANTE)

Di passaggio le femministe parlano di un mondo matriarcale basato sull’empatia. Chissà cosa per essa intendano le femministe che vogliono abolire la prostituzione. Empatiche?
Voi dite di essere empatiche. Ragione vorrebbe che questa empatia vi facesse comprendere come l'essere ridotti a freddo specchio su cui provare l'avvenenza, a pezzi di legno innanzi a cui permettersi di tutto, a burattini da manovrare e poi gettare dopo averlo irriso, il sentirsi insignificanti innanzi a colei che tutti vogliono e tutto può, l'essere attirati solo per esser fatti apparire innanzi a sè e agli altri puro nulla, l'esser trattati come molesti, noiosi o privi di qualità dopo essere stati attratti ad arte, l'esser additato come banali scocciatori dopo essere stati indotti a tentare un approccio, il subire sofferenze fisiche o mentali come conseguenza dell'ingenuo trasporto verso la bellezza, o addirittura il venire scelti fra tanti solo per patire l'inganno più forte, l'illusione più dolorosa, l'umiliazione più profonda, l'esser sollevati per un attimo dalla turba dei disianti, l'essere ingannati da una promessa di paradiso e poi venire sadicamente dichiarati indegni, stupidi e dannati, gettati nell'abisso più profondo della frustrazione sempiterna d'ogni disio, nell'inferno dei patimenti fisici e mentali, nel girone dei senza speranza delle cui pene ridere, e, se l'inganno va anche oltre, l'essere oggetto di perfidie sessuali, tirannie erotiche e sbranamenti economico-sentimentali, costituiscano ferite tali da provocare almeno alla lunga nella psiche danni paragonabili a quelli subito da chi per un trauma sessuale non può più vivere quella sfera serenamente e felicemente. Per voi invece si tratta di lamentele di sfigati e di misogini.

Non avete diritto a chiamare misogino chi sente come ingiusto, in un mondo che parla di uguaglianza, una disparità evidente e insormontabile proprio in ciò che più conta di fronte alla natura, alla discendenza, alla felicità individuale (e non parlo del semplice rapporto sessuale, bensì di tutto quanto il pensiero della sua possibilità comporta: serenità, autostima, influenza sociale). Non è misoginia, è voglia a questo punto di una parità vera, e non di una disparità (con tanto di potenziali perfidie, tirannie e irrisioni) travestita da uguaglianza. Io riconosco il mio bisogno di godere della bellezza nella varietà delle forme viventi, ma cerco chi lo voglia appagare per sua volontà, non perchè costretta.
Io constato che, pur essendo distinto come uomo dall'autocoscienza, ho in comune con gli altri animali i bisogni naturali (il cibo, il sonno, il sesso), i quali devono ovviamente essere periodicamente soddisfatti, a pena di infelicità profonda, frustrazione intima, disagio da sessuale ad esistenziale, ossessione. Tutto ciò, in quanto natura, non ha alcuna valenza morale (né in positivo, né in negativo). E non ha pure nessuna relazione con l'intelligenza, con la cultura o con la sensibilità personale. Si tratta semplicemente di pure necessità di natura. Se non si mangia si muore di fame, se non si dorme si deperisce fino a divenire fantasmi, se non si beve ci si disidrata come foglie morte. E se non si appaga di quando in quando il proprio naturale bisogno di bellezza e di piacere dei sensi in una maniera quantitativamente e qualitativamente sufficiente, la vita si dimezza in altro modo: dapprima vi è una tristezza occasionale, una malinconia diffusa, una rassegnazione, poi una vera sofferenza che partendo dalla sfera sessuale, come ampiamente spiagato da Freud, influenza il rapporto con l'altro sesso in genere e la vita tutta (con chiaro rischio di autodistruzione), e con i meccanismi ben noti dalla psicoanalisi, è destinata a scoppiare prima o poi in qualche modo (contro sé o gli altri). In ogni caso (anche senza giungere a conseguenze estreme), alla lunga, si conosce l'infelicità sia sensitiva sia intellettiva, la frustrazione intima, e l'inappagamento da fisico diviene mentale e, se reiterato, degenera in disagio non più solo sessuale ma esistenziale, con anche il rischio di generare ossessione (nella quale non vi sono né libertà né possibilità di agire lucidamente in imprese grandi e belle). Per questo serve l'appagamento facile e scorrelato all'obbligo di passare per le forche caudine del corteggiamento o per il capestro del matrimonio monogamico (per non dire degli obblighi "religiosi"): per non essere né infelici né tiranneggiabili. Parimenti constato che anche le donne hanno diritto a vivere libere e felici e a non essere costrette da chicchessia ad avere o meno rapporti con questo e con quello o a sottoporsi a obblighi esterni (di concedersi per questo e non per quel motivo). Proprio perchè voglio far coesistere le due cose e non mi sogno di giustificare rapporti strappati con la costrizione o la minaccia parlo sempre della necessità per l'uomo di "poter conquistare e mostrare doti immediatamente apprezzabili ed intersoggettivamente valide al pari della bellezza, con le quali essere universalmente mirato, amorosamente disiato, socialmente accettato, al primo sguardo e a prescindere da tutto il resto, con la stessa rapidità e la stessa forza ineludibile con cui le donne lo sono per le loro grazie corporali". Non parlo mai di "obbligo per le donne di concedersi a tutti e/o in cambio di niente", proprio perchè io desidero solo rapporti in cui la donna (in quanto interessata ai soldi, al prestigio e alla posizione sociale, oppure ad eventuali mie doti di sentimento e intelletto) sia mossa verso di me dallo stesso bisogno e dalla stessa brama che io provo per la bellezza.
Non è sicuramente misogionia. E' invece forse è un modo troppo femminile di avvicinarsi al sesso. Probabilmente il mio problema è quello di volermi sentire "donna" nel rapporto, di non accettare il ruolo attivo richiesto all'uomo, di sognare di potermi abbandonare, come a una furia divina, alle onde della voluttà innanzi a colei nel cui corpo si può amare venere citerea, lasciando che sia lei a fare tutto. Ma non ho forse diritto in un mondo libero ad essere anche effemminato e problematico?

Voi parlate di sensibilità, ma quando si tratta di comprendere quanto provato da ogni giovane maschio che si trovi ad avere l'obbligo di avvicinarsi alle coetanee (sulle quali già fiorisce la bellezza) senza ancora possedere nè ricchezze nè poteri per bilanciare un eventuale rapporto, nè alcuna dote immediatamente apprezzabile ed intersoggettivamente valida con cui propiziarlo, divenite stranamente insensibile.
Essere costretti a passare ore ed ore a parlare per sorprendere o compiacere, cercando di indovinare argomenti interessanti per una sconosciuta, rendendosi in ciò verosimilmente ridicoli o perlomeno affettati, e sopportando che lei si atteggi continuamente a miss mondo, ostenti noia o interesse a tratti, si "assenti" continuamente (materialmente o col pensiero) come chi avrebbe di meglio da fare, o comunque risponda con sguardi e parole esprimenti dei "beh, questa volta piccolo puoi hai detto qualcosa di passabile" o "mah, come sei prevedibile, di capaci di questo ne trovo mille", volti a far sentire il giovane maschio, che sta ingenuamente (e magari, giocoforza data l'inesperienza, maldestramente) tentando di farsi apprezzare, uno fra i tanti, un puro nulla, un banale scocciatore o comunque un giullare da irridere nel disio, un freddo specchio su cui provare la propria avvenenza, un pezzo di legno innanzi a cui permettersi di tutto o addirittura un pupazzo da sollevare per trastullo nell'illusione e da gettare con noncuranza quando annoia! E tutto mentre si è angustiati dal disio e potenziale oggetto di tutti i ferimenti (reali o psicologici), le umiliazioni (pubbliche o private), gli inappagamenti (carnali e mentali) e le relative sofferenze (fisiche ed emotive) che la "dama" di turno avrà la compiacenza di infliggerci per motivi di autostima, stronzaggine, brama di sfoggiare una preminenza erotico sentimentale o puro divertimento e vanagloriosa prepotenza! Io mi rifiuto di tollerare tali tensioni psicologiche, tali ferimenti intimi, tali irrisioni al disio, tali umiliazioni pubbliche e private, tali sofferenze di corpo e di psiche, tali inappagamenti fisici e mentali degeneranti (se reiterati) in ossessione, tali disagi da sessuali ad esistenziali (sfocianti in problemi variabili dall'anoressia sessuale al suicidio). Siamo ormai nel 2018 ed io è dal 20 anni (1998) che ho smesso di dare la possibilità alle coetanee di stronzeggiare su di me. Inoltre non accetto (come avviene nei rapporti "normali) di dover pagare con probabilità 1 (se non in denaro, comunque in regali, doni, inviti o altre utilità economiche, oppure in tempo, corteggiamenti e rinunce varie, o ancora in sincerità e affetto, per non dire in dignità quando dovrei fare da giullare o da cavalier servente) per poi ricevere in cambio un piacere funzione di variabile aleatoria. Per questo ritengo più onesto e dignitoso per entrambi un rapporto mercenario in cui l'assenza di sentimento (ma perchè in quelli "gratuiti" il sentimento c'è ed è vero?) non implica quella di rispetto o di una qualsivoglia forma di coinvolgimento emotivo. Non è pigrizia la nostra: è solo CONSAPEVOLEZZA dell'irrealtà di certe situazioni (nulla è gratis) della disparità di numeri e di desideri, e voglia di evitare atteggiamenti inutili e alla fine, quando insistentemente ripetuti, anche non dignitosi (oltre che, nel caso di uomini sensibili come me, di evitare a priori la possibilità di lasciarmi irridere, umiliare o sbeffeggiare nel desiderio dalle stronze o comunque di farmi sentire "uno fra i tanti", un banale scocciatore, di guardarmi dall'alto al basso, di guardarmi a prima vista con sufficienza se non con aperto disprezzo, e di ferirmi in seguito emotivamente o di provocarmi disagio psicologico, soprattutto nelle situazioni "asimmetriche" in cui è evidente la bellezza ma non il suo corrispondente intellettuale, ossia il cor gentil, che solo potrebbe consentire all'uomo di star di paro a quel dono divino). Non c'entra la paura di non riuscire: è un calcolo delle probabilità (e non venitelo ad insegnare a me), un puro calcolo razionale. Deriva da una disparità di numeri: tutti bramano la donna bella e giovane e conforme al sogno estetico dell'anima moderna (abbastanza restrittivo), mentre al contrario le donne hanno desideri più vasti, apprezzano varie virtù, varie forme e varie età dell'uomo (per cui tanti potrebbero eventualmente piacere loro), le belle (nel senso specificato) sono poche e la concorrenza è altissima, anche quelle di bellezza mediocre sono circondate da stuoli di ammiratori. E' un rapporto di mille a una. Deriva da una disparità di desiderio: tutti gli uomini bramano, accanto ovviamente agli altri rapporti, una notte di ebbrezza e di piacere con una dama ammaliante, mentre le donne in genere non si concedono se non per amore o per interesse, oppure perchè infatuate (ossia come se fossero innamorate, per opera del seduttore che ha saputo interpretare la parte del dongiovanni conquistando la vanagloria femminile).
La probabilità diviene una su un milione, poichè non si può pretendere di pensare che proprio colei da noi bramata fisicamente sarà attratta da noi e dalle nostre eventuali doti d'intelletto e di eloquenza. Non si può pensare che colei che ci apprezzerà sarà a noi gradita fisicamente. Inoltre si potrebbero possedere doti valide e virtù seduttive, ma non quelle gradite alla donna in questione. Si possono avere tante chiavi ma delle porte sbagliate. Oppure si potrebbe avere la chiave giusta, ma potrebbe essere impossibile usarla per le circostanze inopportune (come i moderni luoghi di divertimenti in cui l'uomo d'intelletto è ridotto ad un nulla, giacché non può mostrare le sue principali doti, ossia la cultura e l'eloquenza, senza le qual cose la ragione stessa sarebbe vana, mentre la beltà muliebre è comunque resa evidente ed esplica la tutta la sua attrattiva).
E in ogni caso: perché doversi considerare in obbligo a fare qualcosa? Perché doversi sentire, in ciò che dovrebbe essere un ristoro dalle fatiche dello studio e del lavoro, sotto esame? Perché dover accettare di porre la donna, a priori, su un piedistallo, conferirle doni e offerte votive (in senso materiale o figurato), preghiere e corteggiamenti? Perché pagare comunque in moneta o in sentimento, sincerità (quando si recita da seduttori per la sua vanagloria) o dignità (quando si fa da giullari per farla divertire) per lei, e ricevendo in cambio la sola speranza? Perché dover accettare la tensione psicologica da lei imposta (attraverso il suscitare ad arte il nostro desiderio, attraverso il volerci far recitare da seduttori, attraverso il suo metterci alla prova per pura vanagloria, per diletto, per autostima o a volta anche per derisione e umiliazione)?
Anche nei casi di non stronzaggine non è comunque piacevole ricevere continuamente rifiuti come regola (non si può pretendere di pensare di essere graditi nella maggioranza dei casi).
Perché provare n volte con la speranza che la n+1 esima sia quella giusta?
Non siamo tester! Gli animi più acutamente sensibili sono profondamente feriti, emotivamente, da questa situazione "asimmetrica".

Mentre una giovane donna è apprezzata e disiata, come Beatrice, al primo sguardo ("benigna sen va sentendosi laudare") un giovinotto ha necessità di una "occasione" per dare sfoggio di quelle virtù che potrebbero renderlo gradito agli occhi dell'amata. Questo fa sì che vi sia una chiara disparità nel rapporto (tale disparità è il vero motivo della ricerca di sacerdotesse di Venere da parte degli uomini gaudenti). Non sempre l'occasione esiste (e se esiste, proprio per la sua cruciale rarità , ha spesso la tensione di un esame, non certo il piacere di un divertimento). Non sempre l'occasione è facile (per valutazioni numeriche e di circostanza). Quasi mai: più probabile che le virtù possedute, anche se reali, non siano la vera chiave del consenso di lei (bisognerebbe essere fortunati ad avere in tasca proprio la chiave della porta desiderata) o che, anche qualora lo siano, non riescano ad essere estratte dalla tasca, o vengano perdute nel buio della mediocrità dei divertimenti di massa o nella confusione delle banalità moderne. Spesso dunque il disio resta unilaterale ed allo stadio di illusione. Eppure l'incantamento estetico-amoroso rimane reale per l'uomo, giacché parte della natura.
Un fanciullo brama la donzella avvenente così come un fiore sboccia, un usignolo canta, un prato fiorisce, una cascata irrompe, e quando il suo desire si volge in attività d'intelletto allora i versi e le rime scorrono con quella medesima magia propria dei prodigi di natura, come l'avvento della Primavera o il riflesso sull'onda lucente di quella conchiglia d'argento che chiamiamo Luna.
La donna, al contrario, proprio perchè raramente desidera un uomo per la bellezza e se ne invaghisce al primo sguardo, e più facilmente ella vuole prima sondarne il valore per ammirarvi altre virtù, quali la bravura nel creare sogni e illusioni, nel far vivere all'amata "la favola bella che ieri t'illuse, che oggi m'illude", e non ultime la cultura e l'eloquenza, tutte virtù che si esplicano primieramente attraverso la capacità e l'ordine del dire, senza le qual cose la ragione stessa sarebbe vana, non rimane ammaliata da principio (lo sarà forse dopo), e resta libera di decidere senza incantamenti.
Per questo, almeno all'inizio della conoscenza, ed al contrario di quanto, secondo voi, è da un punto di vista fisico, è l'uomo e non la donna a trovarsi in una condizione di debolezza. E questo voi ben lo sanno le escort (è il motivo della loro forza contrattuale), ma ben dovrebbero saperlo delle blogger mosse da onesta curiosità intellettuale. L'uomo è già invaghito e agisce secondo i riflessi condizionati dell'istinto (seppur filtrati dalle convenzioni sociali), ed il suo intelletto e la sua immaginazione sono angustiati dal desiderio, non permettendogli, spesso, di mostrare il meglio delle proprie virtù intellettive, culturali e oratorie, né di sentirsi a proprio agio e rilassato, mentre la donna si deve ancora invaghire e la sua mente è pronta per lasciarsi inebriare "dalle parole che dici umane" o per capire l'inadeguatezza dell'aspirante amante, comunque più libera di scegliere.
E' infatti evidente che, mentre un uomo mira alla bellezza, una donna ama altre virtù, quali la capacità di dimostrare il proprio valore, di affermarsi, la capacità di far sentire alla fanciulla di vivere in una favola, l'abilità di perdere la donna negli imperi occulti del sogno, la brama di erudizione e di squisitezze intellettuali, la sete di cultura, la tensione all'eccellenza nel fare come nel dire ed altre infinite virtù che si esprimono soltanto con l'uso della parola, con la modulazione della voce, con il tempo dato al corteggiamento e che in un giovane ed inesperto non possono per forza di cose svilupparsi in quella prima età nella quale sulle donne fiorisce la bellezza.

E non ho intenzione nel nome di una mitologica emancipazione (che piace alle donne sempre e solo nei diritti e mai nei doveri, sempre e solo quando concede loro nuove possiiblità e mai quando toglie privilegi acquisiti) di ritrovarmi in situazioni nelle quali alla donna è data la possibilità di sfoggiare le proprie grazie e spandere subitaneamente disio negli astanti mentre a me è preclusa quella di compensare, se non con lo sfoggio di particolari doti di sentimento o intelletto (impossibile nei fugaci e caotici incontri moderni, nel mondo moderno privo di delicatezza e di gusto), con quanto costruito con la cultura, il denaro, il successo, la fama, il potere, il lavoro, lo studio, il merito o la fortuna individuali. Ecco perchè fino a quando non avrò ottenuto una certa posizione di prestigio o preminenza nella società rifiuterò qualsiasi contatto con le donne non sia l'accordo commerciale dichiarato come nel culto di venere prostituta. E questo non certo perchè sia contrario in linea di principio all'emancipazione femminile (vorrei semplicemente aggiungervi l'emancipazione maschile, specie dal corteggiamento, giacchè non è razionalmente ammissibile che voi possiate cumulare antichi privilegi e moderni diritti e soprattutto usare le vostre armi naturali senza limiti remore nè regole dopo aver privato l'uomo, con l'illusione dell'uguaglianza, di tutto quanto aveva saggiamente costruito nella storia, nella cultura e nella società proprio per bilanciare in desiderabilità e potere il rapporto con voi sì da poter vivere libero e felice e non vedere la sua vita ridotta a una sequenza di irrisioni, umiliazioni e inappagamenti sempiterni d'ogni disio come de facto è in quel folle periodi di "uguaglianza primitiva" imposta costituito dall'età scolare). Limitatamente al problema, il femminismo è innocente: le italiane, nell'ars amandi, erano tali e quali anche ai tempi del Leopardi. E' evidente da come l'hanno trattato.